Il piccolo imprenditore

La dimensione dell’impresa è uno dei criteri di differenziazione della disciplina degli imprenditori, che individua la figura del piccolo imprenditore in contrapposizione all’imprenditore medio/grande.

Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, invece, è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili, art.2214, comma 3, e, dall’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, art.2221 c.c. e art.1 legge fallimentare. Inoltre, l’iscrizione, esclusa inizialmente, è divenuta obbligatori dopo l’approvazione della Legge n.580/1993.

La piccola impresa è assoggettata a una legislazione speciale, ispirata dalla finalità di favorirne la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso agevolazioni finanziarie, lavoristiche e tributarie. Il piccolo imprenditore è definito sia dal codice civile, sia dalla legge fallimentare.

L’art.2083 c.c. definisce piccolo imprenditore il coltivatore diretto del fondo, l’artigiano, il piccolo commerciante e colui che esercita una attività di impresa organizzata prevalentemente con il proprio lavoro e quello dei componenti della propria famiglia.

Il lavoro proprio e quello della famiglia devono essere considerati in prevalenza non solo in proporzione al fattore lavoro eventualmente svolto da terze persone, ma anche e soprattutto, in relazione al capitale investito.

Non è semplice individuare con i soli parametri dimensionali un piccolo imprenditore. Nel corso degli anni sono stati dati alcuni parametri attraverso i quali era possibile operare tale distinzione. Infatti, erano definiti piccoli imprenditori coloro che, in fase di accertamento ai fini della ricchezza mobile, risultavano titolari di un reddito al di sotto del minimo imponibile. In caso di mancato accertamento, invece, l’elemento di riferimento era il capitale investito che non doveva essere superiore a lire 30.000, poi innalzato a lire 900.000.

Appare evidente che questi fattori non potevano più essere presi come elementi d’individuazione della dimensione dell’impresa, vuoi perché la ricchezza mobile non era più presente nel panorama legislativo fiscale, vuoi perché il limite delle 900.000 lire ormai era da considerarsi assolutamente esiguo per qualunque tipo di impresa.

In virtù di tutte queste ragioni e di alcuni interventi della Corte costituzionale, oggi l’unica definizione del piccolo imprenditore è quella fornita dall’art.2083 c.c.

Si può trovare un’ulteriore precisazione nell’art.1, comma 2, della legge fallimentare, ai sensi della quale non sono considerati piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:

  • Hanno avuto nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore) un attimo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a € 300.000,00;
  • Hanno realizzato, in qualunque modo risulti, nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore), ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore a € 200.000,00.
  • Hanno un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a € 500.000,00. E’ sufficiente superare anche uno solo dei limiti dimensionali di cui sopra per essere esposti al fallimento.

La definizione codicistica di piccolo imprenditore non è, però, accostabile alla definizione specialistica di piccola e media impresa fornita dal regolamento CEE del 1988 contenente disposizioni d’intervento a favore delle attività economiche ubicate in zone di declino industriale. In tale ambito, la piccola impresa è quella che rispetta determinati parametri dimensionali: un numero di dipendenti non superiore alle 50 unità, e un fatturato medio, nei primi 3 anni precedenti la richiesta del contributo, non superiore a 7,5 miliardi di lire.