Classificazione delle azioni

Classificazione dimensionale delle azioni

All’interno di ciascun mercato, le società emittenti di azioni vengono divise in funzione della capitalizzazione di mercato, la variabile attraverso cui si valuta la dimensione, che è data dal prodotto tra il prezzo delle azioni e il numero di azioni in circolazione (P · n. azioni). In funzione di questa variabile, le società possono essere suddivise in:

–     large cap —> capitalizzazione > 5 miliardi di dollari equivalenti;

–     mid cap —> 1 < capitalizzazione < 5 miliardi di dollari equivalenti;

–     small cap —> capitalizzazione < 1 miliardo di dollari equivalenti.

Queste è la riclassificazione internazionale, che però può variare da Paese a Paese (solo la definizione di small cap è uguale dappertutto).

Classificazione per potenziale di crescita degli utili delle azioni

Questa classificazione non è alternativa alla precedente: di solito vengono utilizzate insieme.

La dimensione è una variabile direttamente osservabile, mentre per il potenziale di crescita degli utili non esistono dei relativi dati di bilancio. Perciò, normalmente, si procede a misurare una serie di grandezze aziendali standardizzate che vengono poi usate come indicatori proxi del potenziale di crescita. I primi due indicatori di questo tipo sono anche due modalità utilizzate per standardizzare il prezzo dei titoli:

– utile —> P/U (Prezzo/Utile) —> redditività attesa/redditività corrente;

– valore di libro del capitale azionario —> P/B (Przzo/Libro, Price to Book) —> valore previsto/valore corrente.

A questi due indicatori se ne aggiunge un terzo (non più un prezzo standardizzato rispetto a una variabile): Dividend Yeld ® D/P (Dividendo/Prezzo) ® » reddito cedolare

Tanto più è alto il rapporto prezzo-utile, tanto più è alta la redditività attesa rispetto a quella corrente e, ovviamente, la redditività attesa è tanto più alta quanto più l’impresa cresce. Quindi tanto più è elevato il rapporto prezzo-utile, tanto più è elevato il potenziale di crescita.

Il secondo indicatore ha lo stesso significato: tanto più è alto il rapporto prezzo-libro tanto più è alto il valore previsto rispetto a quello corrente e, ovviamente, il valore previsto è tanto più alto quanto più l’impresa cresce. Quindi tanto più è elevato il rapporto prezzo- libro, tanto più è elevato il potenziale di crescita.

Per il terzo indicatore bisogna fare un ragionamento diverso: le società che pagano più dividendi sono le società stabili, con poco potenziale di reinvestimento remunerativo, ossia con pochi progetti futuri. Quindi elevati dividend yeld significano basso potenziale di crescita.

Questi tre indicatori messi insieme consentono di individuare quali sono le società che crescono tanto e quali sono le società che crescono poco e di etichettare queste società.

Innanzitutto, bisogna precisare che la crescita, oltre ad essere un concetto non direttamente misurabile, è anche un concetto che va relazionato all’economia di cui parliamo: è impossibile rapportare imprese cinesi e imprese italiane, perché l’economia cinese nel suo complesso cresco molto più rapidamente di quella italiana. Bisognerà perciò confrontare società appartenenti alla stessa economia, ad esempio tutte le società quotate a Milano (tra queste troveremo alcuni titoli esteri, ma in quantità molto ridotta).

Dopo aver stabilito quali sono le società da considerare, queste verranno riclassificato in termini di rapporto prezzo/utile crescente. Si adotterà poi la stessa procedura in termini di rapporto prezzo/libro: tra i due indici c’è un forte collegamento ma non è detto che le prime posizioni siano perfettamente coincidenti. Successivamente, si procede alla riclassificazione in termini di dividend yeld decrescente. Infine, si esegue una classificazione media.

A questo punto, traccio una riga nella classificazione media, al di sopra della quale troverò il 50% delle società non per numero, ma per capitalizzazione di borsa, ossia quelle società che, cumulate, rappresentano il 50% del mercato. Al di sotto della riga, ovviamente, troveremo le società che rappresentano il secondo 50% della capitalizzazione di mercato. Il primo 50% rappresenterà quelle società che crescono poco, che vengono generalmente descritte come società che crescono meno della media di mercato. Viceversa, il secondo 50% identifica quel gruppo di società che crescono più della media di mercato.

A questo punto, siamo in grado di etichettare le diverse società in relazione al potenziale di crescita degli utili:

–          growth: società che crescono più della media;

–          value: società che crescono meno della media.

Tutti i titoli che troviamo oggi sul mercato si portano dietro una doppia etichetta: una dimensionale e una di potenziale di crescita.

I titoli saranno posizionati nei tre quadranti superiori e nei tre quadranti inferiori.

Tuttavia, si utilizzano 9 quadranti perché questa analisi rappresenta anche il cosiddetto stile di gestione. Generalmente, chi investe in titoli azionari si specializza, ossia, di volta in volta, non osserva tutti i titoli, ma si concentra su sottoinsiemi del mercato. Quindi, ci saranno gestori che lavorano solo nei quadranti superiori (growth) o solo nei quadranti inferiori (value), ma possono esserci anche gestori che si specializzano solo per dimensione, e allora si collocheranno nei quadrati intermedi.

Lo stile di gestione, però, può anche essere diverso. Infatti, ci sono condizioni di mercato in cui determinati gruppi di società tendono a performare meglio di altri: perciò un gestore può scegliere di posizionarsi sul quadrante che, di volta in volta, dovrebbe performare meglio in quella fase di mercato.

Il primo stile di gestione viene definito specializzazione; il secondo style rotation.

Il rischio dei titoli azionari

Avevamo introdotto il tema del rischio parlando della funzione obiettivo degli investitori. Avevamo poi trovato un indicatore di rischio per le obbligazioni: la duration. Esiste anche la duration dei titoli azionari, ma ha un significato molto complicato che non ci interessa analizzare. Avremo perciò bisogno di altri indicatori: per le azioni troviamo indicatori di tipo statistico.

L’indicatore più generale di volatilità di un titolo azionario è lo scarto quadratico medio, detto anche deviazione standard (s). La deviazione standard può essere calcolata ex ante, come dispersione intorno al rendimento atteso, oppure ex post, sulla base di dati storici. Ovviamente, quello che interessa sapere è quanto sarà rischioso un titolo, quindi dovremmo calcolare la deviazione standard ex ante, ma, per semplicità, faremo riferimento a dati storici, che in realtà misurano quanto è stato rischioso un titolo in passato.

Per calcolare la deviazione standard bisogna conoscere il prezzo del titolo nel corso del tempo e poi scegliere un orizzonte temporale su cui calcolare il rendimento. Supponiamo di scegliere un orizzonte temporale di una settimana: bisognerà calcolare il prezzo medio settimanale e poi calcolare la deviazione da quel dato medio. Ad esempio, se il rendimento medio settimanale della Fiat è stato del 2%, ma intorno a quel valore c’è stata una deviazione standard del 5%, quel 2% è in realtà un rendimento delle Fiat che va dal -3% al 7%. Tanto più è alta la deviazione standard, tanto più si dilatano i valori che posso ottenere investendo in quel titolo azionario, ossia tanto più è elevato il rischio di prezzo.

Quando osserviamo i titoli con l’intenzione di inserirli all’interno di un portafoglio, oltre a conoscere la volatilità del singolo titolo avrò bisogno di un’ulteriore informazione, ossia quanto oscillano insieme due titoli se li metto all’interno dello stesso portafoglio.

Ad esempio, supponiamo di aver identificato i titoli di una società che produce condizionatori e i titoli di una società che produce ombrelli. La domanda di condizionatori sarà alta nelle estati calde, mentre la domanda di ombrelli crescerà nelle estati piovose: i prezzi si muovono in modo opposto a seconda delle condizioni meteo. Viceversa, i titoli di una società che produce condizionatori e i titoli di una società che produce gelati reagiranno allo stesso modo alle condizioni meteo.

Quindi, la deviazione standard ci fornisce un’indicazione circa la volatilità dei singoli titoli; ora abbiamo bisogno di un indicatore che ci dica quanto due titoli sono tra loro collegati: questo indicatore prende il nome di coefficiente di correlazione lineare (r) e può assumere valori che vanno da +1 a -1.

–          +1 —> perfetta correlazione lineare positiva: il rendimento di due titoli si muove nella stessa direzione e mantiene sempre la stessa proporzionalità;

–          -1 —> perfetta correlazione lineare negativa: il rendimento di due titoli si muove in direzione opposta e mantiene sempre la stessa proporzionalità.

Questi due valori sono le estremizzazioni; troveremo poi una serie di valori intermedi che identificano titoli tra loro collegati non perfettamente, positivamente o negativamente.

Ora che abbiamo visto come misurare la volatilità dei titoli e la loro correlazione a coppie, possiamo vedere come calcolare il rischio di un portafoglio che mette insieme più titoli. Supponiamo di investire il 50% del nostro denaro su un titolo e il restate 50% su un altro titolo: il rischio di portafoglio sarà uguale alla media aritmetica dei rischi solo se i titoli in portafoglio sono perfettamente correlati positivamente.

s A + sB

sP (50, 50) = se r = 1

2

Perciò, il rischio di un portafoglio 50 e 50 è sempre inferiore alla media dei rischi per tutti i r strettamente inferiori a +1. ovviamente, tanto più è bassa la correlazione, tanto più sarà basso il rischio di portafoglio. Questo spiega perché la diversificazione degli investimenti genera benefici.

Troviamo poi una terza misura di rischio dei titoli azionari, volta a misurare quanto si muovono in media le società rispetto a quanto si muove il mercato all’interno del quale sono inserite. Prendiamo ad esempio il mercato di Milano e le società in esso quotate: Milano sarà un portafoglio titoli con una certa volatilità, e le società in esso quotate avranno anch’esse una loro volatilità. L’idea generale è quella di trovare un indicatore che ci dica quanto un titolo si rapporta al portafoglio di cui fa parte in termini di volatilità. Questo indicatore prende il nome di beta (b) ed è pari al rapporto tra la covarianza fra il rendimento della società e il rendimento del mercato e la varianza del rendimento del mercato (la deviazione standard del mercato al quadrato).

COV (Fiat, mkt)

b= s2mkt

Beta può assumere valori superiori, uguali o inferiori a 1, fermo restando che la covarianza tra un titolo e il suo mercato di appartenenza è quasi sempre positiva.

– b > 1: la covarianza tra le azioni Fiat e il mercato è più forte della varianza del mercato, perciò, quando il mercato si muove, le Fiat si muovono più del mercato. Titoli con questa caratteristica vengono definiti titoli aggressivi e sono più rischiosi del mercato;

– b < 1: la covarianza tra le azioni Fiat e il mercato è meno forte della varianza del mercato, perciò, quando il mercato si muove, le Fiat si muovono meno del mercato. Titoli con questa caratteristica vengono definiti titoli difensivi e sono meno rischiosi del mercato;

– b = 1: il titolo si muove quanto il mercato. Titoli con questa caratteristica vengono definiti titoli neutrali.

(I titoli emessi da società small cap growth sono quasi sempre titoli aggressivi, mentre i titoli emessi da società large cap value sono quasi sempre titoli difensivi).