La prima guerra mondiale e pace interna

Nel 1914, con l’esplosione della Grande Guerra, il mondo economico crollò. Essa non soltanto fu terribile durante il suo decorso, ma lasciò anche un’eredità pesante, che generò (molti sostengono) la seconda Guerra e la nascita del modello sovietico come contrapposizione al capitalismo. Una volta cessato il conflitto fu impossibile tornare indietro.

Il gold standard fu smantellato, il liberalismo morì, i Governi organizzarono un’economia di guerra.

Tutti i Paesi neutrali goderono di un vero boom, come la Danimarca e l’Olanda. L’Italia (anche la G.B.) cadde nella depressione postbellica, che generò il fascismo. Germania, Ungheria, Austria, Turchia e Bulgaria compirono uno sforzo di recupero immenso. Il maggiore costo della guerra fu, tuttavia, in vite umane (9 milioni di militari e 5 di civili).

I Governi non esitarono a ricorrere al finanziamento più facile: l’emissione di moneta, che, come sappiamo da Eco Pol. II, genera intensa inflazione. Questo fattore, unito al deficit pubblico pesò terribilmente sullo sviluppo.

Gli effetti peggiori furono definiti da Keynes come “le conseguenze della pace”:

  1. la ricomposizione della mappa politica, che generò non pochi problemi sociali
  2. le pretese degli alleati sulle potenze vinte di pagamenti astronomici (generarono deficit delle bilance commerciali)

 

I felici anni venti e le crisi degli anni trenta

Il 1922 fu il primo anno di prosperità, che permise di dare per conclusa la ricostruzione postbellica.

Con il Trattato di Versailles, la Germania fu castigata molto duramente. Vista la sua impossibilità di pagare i danni di guerra, la Francia ed il Belgio si appropriarono dei bacini minerari dell’ovest tedesco.

Per contrastare questo appropriamento il Governo finanziò gli scioperanti emettendo moneta; la spirale inflazionistica fu così vasta che si tornò al baratto. Questo caos fu superato soltanto con il credito nordamericano del piano Dawes.

Dal 1925 le grandi invenzioni americane (ad esempio: l’automobile, grazie a Ford, e gli elettrodomestici), sviluppate mentre altrove si combatteva, arrivarono in Europa. Il piano Dawes voleva incoraggiare i Governi a tornare al sistema aureo, simbolo di stabilità e prosperità. La G.B. accettò nel 1925, l’Italia nel ’27, la Francia nel ’28.

Questo ritorno, tuttavia, si realizzò mediante sopravvalutazioni eccessive delle monete e ciò portò alla recessione.

Altri due importanti squilibri erano:

  1. il bisogno di ristrutturazione o “deflazione strutturale”: le guerre distrussero campi fertili e stimolarono la nascita di industrie belliche di difficile riconversione; inoltre le esportazioni in Paesi che ormai erano tornati alla normalità generarono eccesso di offerta, quindi un ribasso dei prezzi.
  2. l’isolamento americano: a parte la totale indifferenza alla ricostituzione della pace e la non partecipazione ai trattati, ad incidere pesantemente fu soprattutto l’improvvisa chiusura all’immigrazione (basata sull’imposizione di una quota, sistema tutt’oggi in funzione); la concorrenza dei poveri immigranti era un problema per le classi salariate statunitensi. Visto l’impoverimento europeo c’erano più motivi di prima per emigrare in America. Oltre a questo, gli Stati Uniti attuarono, per la prima volta, misure protezionistiche.

Queste chiusure portarono benessere in America fino a far nascere “l’American way of life”.

In un ambiente pieno di sicurezza, nel quale tutti i commerci funzionavano, si estese notevolmente l’investimento in borsa.

Ma i dati dei profitti, dopo l’estate del ’29, indicavano un raffreddamento del mercato, sino a giungere, in Ottobre, al venerdì nero.

Il meccanismo iniziale della crisi fu, essenzialmente, creditizio: troppi avevano comprato azioni a credito, e le banche si affrettarono a reclamare tali crediti, mettendo in moto la contrazione.

Particolare fu la reazione totalmente assenteista della Federal Reserve (FED): essa pensava che la crisi fosse dovuta ad una sopravvalutazione di imprese marginali e a degli azzardi eccessivi da parte delle banche.

La critica più autorevole fu quella di Friedman che sostenne che la FED dovesse combattere tanto l’inflazione quanto la deflazione, emettendo moneta.

Mentre la crisi borsistica si trasformava in crisi bancaria e finanziaria, sorse un altro problema: per ripicca, gli altri Paesi aumentarono i dazi sui prodotti americani, scatenando una guerra commerciale.

Per sfuggire a questo clima di tensione, la soluzione era svalutare, ma per farlo bisognava uscire dal gold standard.

Con grande sorpresa, il primo Stato a farlo fu quello più conservatore: l’Inghilterra che, dimenticando i suoi dogmi economici ormai superati, fronteggiò bene la crisi.

Anche altri Paesi la subirono con leggerezza (la Danimarca non ebbe alcun calo del PIL) o con brevità (Italia e Spagna, la seconda soffrì piuttosto la guerra civile). I Paesi Balcanici, invece, erano talmente arretrati che quasi non se ne accorsero.

Anche l’URSS era una storia a parte, impegnata nell’industrializzazione pubblica, denominata “forzata”.

L’uscita dalla crisi, però, aveva sempre due elementi comuni: il protezionismo e l’intervento pubblico (Roosvelt per gli USA, l’autarchia di Hitler in Germania e quella i Mussolini in Italia).