La subordinazione

Partiamo dal vuoto legislativo presente prima del Codice Civile del ’42. In quel momento il riferimento era al Codice del 1865, di stampo borghese, erede del codice napoleonico, prevalentemente rivolto a regolare i rapporti patrimoniali dei cittadini. Esso non conteneva una definizione, né una regolamentazione del lavoro subordinato, visto che il lavoro subordinato nemmeno esisteva nelle forme che oggi intendiamo.

Come veniva inquadrato giuridicamente il particolare contratto tra datori e lavoratori? Gli operatori prescindevano dalla questione della qualificazione giuridica: si stabilivano accordi (per lo più orali) e contenuti. Solo nel 1924 il legislatore introdurrà una prima disciplina di legge per il lavoro operaio. Fino ad allora la contrattazione collettiva era l’unica fonte.

Per la fattispecie giuridica, il primo riferimento è l’art. 1570, che definiva la “locatio operarum”, o locazione delle attività (oggi detto lavoro subordinato). Si contrappone alla “locatio operis”, che si riconduce al lavoro autonomo. Si definiva la locazione delle opere quale (cito codice 1865) “un contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”. Sebbene oggi non si trovi la definizione del contratto, ma quella del prestatore, troviamo una serie d’elementi comuni con quelli odierni. Iniziamo col dire che era un contratto di scambio tra “un fare ed un dare”: un contratto a prestazioni corrispettive, tipicamente a titolo oneroso.

Teniamo conto del fatto che questi contratti venissero stipulati in modo molto libero, spesso in forma orale, senza nemmeno l’indicazione del termine. Questa indeterminatezza entrava in conflitto con uno dei principi del vecchio codice stesso, (erede della rivoluzione francese per quanto riguarda i diritti della persona) che affermava all’art. 1628: “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa” (vi è un vincolo di subordinazione). Questo è il principio della non perpetuità del vincolo (per evitare la schiavitù). Si stabilirono, allora, regole per porre termine ai contratti, cosiddette regole di recesso.

Se il contratto di lavoro subordinato è stato costruito intorno alla “locatio operarum”, come è stata costruita la figura del lavoratore? Essa si sviluppò, a partire dalla seconda metà dell’800, da un’ideologia volta a garantire un minimo di protezione ai lavoratori, intesi come soggetti deboli. Il primo intervento legislativo importante è stata la legge per la tutela dell’infanzia che ha limitato il lavoro notturno per i minori. Con lo sviluppo dell’industria ingegneristica ed il verificarsi di numerosi incidenti lavorativi, il legislatore deve affrontare un altro problema sociale: gli infortuni sul lavoro. L’idea che si diffuse in tutta Europa fu quella di introdurre l’assicurazione obbligatoria per tali infortuni, che poi verrà gestito dal sistema pubblico e infine confluirà nell’attuale INAIL.

Nel 1904 troviamo un testo che esplica per la prima volta la definizione di operaio (finalizzata all’applicazione stessa del testo sugli infortuni): “… chiunque, in modo permanente, in modo fisso o avventizio, con remunerazione fissa o a cottimo, è occupato nel lavoro fuori della propria abitazione”. E’ una definizione in senso negativo, che spiega l’inserimento del lavoratore all’interno di una struttura. Con il R.D.L. (regio decreto legge) numero 1825 del 1924 (siamo agli inizi del periodo fascista) troviamo una legge sull’impiego privato. S’introduce, per la prima volta in Italia, una spaccatura tra lavoro impiegatizio e operaio. Si volevano garantire determinati diritti per gli impiegati (a cui si concede uno “status”), per trarre consensi dalla fascia di piccola borghesia, aumentando, però così, il divario con la classe lavoratrice.

Ripartiamo dal R.D.L. del ’24. Citazione: “Il contratto d’impiego privato è il contratto per il quale una società o un privato, gestore di un’azienda, assumono, normalmente a tempo indeterminato, al servizio dell’azienda stessa, l’attività professionale dell’altro contraente, con funzioni di collaborazione, eccettuata la prestazione di mera manodopera”.

L’oggetto dello scambio è individuato almeno formalmente solo da un lato: non compare espressamente il riferimento al compenso; l’attenzione è centrata sul contenuto dell’attività svolta dal lavoratore (contenuto del debito lavorativo che il lavoratore contrae). L’oggetto dello scambio è quindi l’attività professionale, individuata in due tipi (+ una esclusa):

  • Collaborazione: 1. di concetto 2. di ordine
  • Manodopera, che resta esclusa

Trattasi di collaborazione tipica dell’impiegato (concepita come collaborazione, poiché più vicina all’imprenditore, ancora una volta ci si rifà al principio di evitare il marxismo classista). L’intento esplicito è quello di escludere le attività meramente manuali. L’inciso “normalmente a tempo indeterminato” è la formalizzazione di un’abitudine.

La legge continua: “Nel caso in cui la posizione di un termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto e appaia fatta per eludere le disposizioni complessive della legge, in quel caso si applicano a tutti le stesse regole del contratto indeterminato”. Da questo modello si arriva al nostro codice civile pienamente vigente. Qui troviamo mantenuta la netta distinzione tra lavoro subordinato/autonomo: “locatio operarum/operis”. La dottrina (Barassi nella fattispecie) riprende a ragionarci sopra. Si diceva che, nella “operarum”, l’obbligazione che grava sul lavoratore è un’obbligazione di mezzi, non di risultato: il rischio d’impresa/d’inadempimento ricade sul creditore (cioè sul datore di lavoro, a differenza della locatio operis). La vera differenza è la subordinazione, ed è proprio questo il requisito da ricercare per distinguere oggi lavoro autonomo e subordinato. Un tratto distintivo del rapporto di lavoro è la durata. Altra particolarità è la possibilità del datore di lavoro di esercitare determinati poteri, anche sanzionatori, che derivano dallo stesso Codice Civile e stanno alla base della subordinazione.

Nel Codice Civile non troviamo più una definizione del contratto di lavoro, ma all’art. 2094, esso disegna la figura del prestatore di lavoro. Altra scelta è stata quella di creare una figura unitaria, opposta alla situazione anteriore dove si aveva una definizione di operaio e impiegato. Per la prima volta appare la parola “subordinato”. Cito l’art.: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare con l’impresa, prestando il proprio lavoro, intellettuale o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Analisi:

  • Dall’espressione “mediante retribuzione” traiamo conferma del rapporto di lavoro come rapporto di scambio oneroso (ricordiamo l’onerosità come caratteristica tipica o intrinseca) tra collaborazione (in varie forme) e retribuzione. La collaborazione, che un tempo distingueva il contratto di impiego privato dal contratto operaio, diventa, invece, comune a tutti i prestatori di lavoro.
  • “nell’impresa” denota la rilevanza dell’inserimento effettivo nell’azienda, non necessariamente fisico, ma nell’attività tipica.
  • “prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale” denota l’unità tra impiegati e prestatori di manodopera.
  • “alle dipendenze e sotto la direzione …”: è il cuore della subordinazione.

Questo implica un potere direttivo del datore di lavoro: l’eterodirezione come caratteristica diretta, indice, secondo alcuni requisito fondamentale, della subordinazione. Se col 2094 il legislatore ha unificato la fattispecie del lavoratore subordinato, superando la vecchia distinzione, nel 2095 ricompare proprio questa stessa distinzione tra categorie: nasce la categoria dei dirigenti, come alter ego dell’imprenditore.

Oggi è una rete di soggetti con capacità e poteri decisionali più elevati di quelli degli impiegati. Il testo afferma: “I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in:

  1. dirigenti,
  2. quadri,
  3. impiegati
  4. ed operai”.

La legge 290 dell’85 ha portato all’inserimento della categoria dei quadri nel Codice Civile. Questi soggetti venivano delineandosi tra l’alta dirigenza e la categoria operaia. Il legislatore ha riconosciuto i quadri, sotto la pressione di quel ceto, che ambiva a distinguersi dagli impiegati ordinari. I quadri sono, invero, degli impiegati, un po’ più alti di livello, con solo qualche aspetto marginale in più rispetto ad essi.

I dirigenti, al contrario, hanno peculiarità di disciplina e trattamenti normativi molto diversi da quelli degli impiegati: esempio tipico è quello di non essere soggetti alla disciplina degli orari del lavoro. Il 2095 continua: “Le leggi speciali [e le norme corporative], in relazione a ciascun ramo, determinano i requisiti di appartenenza alle sopraindicate categorie”. Nel dubbio, si rimanda al R.D.L. del ’24. Ad oggi, questa legge è stata, nei fatti, sostituita dalla regolazione dei contratti collettivi. Cominciando a trattare il concetto di subordinazione è opportuno precisare che, tra il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo, si collocano forme di lavoro che non sono né nettamente riconducibili all’uno, né all’altro (cosiddetto lavoro parasubordinato).

Si collocano, quindi, delle figure contrattuali, che si sono affermate per la loro convenienza economica, e che il legislatore ha regolato, per ora, solo marginalmente. Il lavoro parasubordinato è oggi spesso detto CO.CO.CO. (“collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, anche se non subordinata), all’art. 409 del Codice di procedura civile (c.p.c.). Non vi è una piena fungibilità (= sostituibilità) tra questa figura ed il lavoratore subordinato.

Ad esempio, vi è un committente e non più un datore. Si applicano gli artt. 409 cpc e 2113 c.c. Il COCOCO (collaboratore coordinato e continuativo) è un lavoratore autonomo, ma con qualche diritto particolare riconosciuto espressamente dalla legge. Non è mai un lavoratore subordinato. Nel definire la nozione di subordinazione ed i suoi confini, i punti di riferimento utili sono individuati in alcuni interventi del legislatore che hanno avuto ad oggetto speciali tipi di lavoro (esempio: lavoro a domicilio). La nozione di subordinazione che traspare nel 2094 è espresso da “alle dipendenze e sotto la direzione”.

Una prima accezione è, quindi, tipicamente gerarchica. La caratteristica è quella di essere assoggettato al potere direttivo del datore (ancora eterodirezione). Se scorriamo le pronunce della Cassazione troviamo confermato questo orientamento. Tuttavia, i modi di organizzare il lavoro si sono trasformati nel tempo, assumendo forme nuove (pensiamo, ad esempio, al margine di autonomia che può avere un dipendente, unico a conoscere il sistema operativo centrale informatico di una ditta). La Cassazione afferma: “la subordinazione deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che in un’assidua vigilanza, con riguardo alla specificità dell’attività assegnata”.

Da una parte si dice che il datore impartisce ordini specifici, dall’altra si dice che questi ordini non debbono essere continui, dettagliati e strettamente vincolanti. Sono sufficienti anche direttive programmatiche. L’interesse dell’imprenditore riguardo al collaboratore coordinato e continuativo:

  • è continuativo sul piano della ripetizione nel tempo delle singole prestazioni di risultato
  • è discontinuo sul piano della disponibilità del lavoratore: si dice che il lavoratore non è vincolato a tenersi a disposizione del committente (ovvero dopo una prestazione può cambiare datore)

La giurisprudenza introduce anche un altro elemento di individuazione della subordinazione: il già citato inserimento del lavoratore all’interno della struttura produttiva. Il cane si morde la coda: si è lavoratori subordinati se si è assoggettati ai poteri del datore di lavoro, ma si applicano le regole della subordinazione solo quando il lavoratore è subordinato.

La giurisprudenza ha elaborato indici sintomatici di una situazione di subordinazione, che di per sé, presi ad uno ad uno, non sono rilevanti, ma, quando se ne verificano per un certo numero insieme, si può ritenere che un certo rapporto sia, nel complesso, valutato come subordinato, a meno che non vi sia una evidente prova della eterodirezione. Elenco di alcune di queste caratteristiche:

  • continuità nello svolgimento delle mansioni
  • versamento a cadenze periodiche
  • coordinamento dell’attività rispetto all’aspetto organizzativo
  • alienità del risultato
  • lavoro prestato all’interno di una struttura materiale d’impresa
  • orario di lavoro
  • assenza di rischio economico (come si riteneva fin dai tempi di Barassi)
  • etc.

Apriamo una parentesi. Per fare questo introduciamo i gradi di giudizio poiché troveremo spesso riferimenti ad atti di pretori e tribunali. Classicamente il giudice del lavoro era il pretore di primo grado, mentre il tribunale quello di secondo grado (ricorso in appello). A seguito della riforma, l’articolazione oggi è un po’ diversa: non ci interessa particolarmente, in questa sede, ma, per dirla in poche parole, sono scomparse la figura del pretore e della corte d’appello (come secondo grado).

Passiamo, a questo punto, ad un caso (capostipite) particolare degli anni ‘90: i cosiddetti “pony express” (vedi anche libro al capitolo 1 pag. 4). Si rimetteva in discussione la loro qualificazione. Certi ragazzi svolgevano attività senza essere assunti, e dichiaravano la loro disponibilità per un tot numero d’ore. Erano pagati sia a seconda del numero di ore, sia secondo i risultati economici conseguiti.

Come sono stati qualificati? Il pretore ha ricostruito la fattispecie, portando a concludere che quello fosse un rapporto di lavoro subordinato, secondo questi indici:

  • continuità delle prestazioni
  • stabilità sostanziale delle ore di lavoro
  • inserimento organico nella struttura dell’azienda
  • operano ad esclusivo interesse di un unico soggetto
  • si uniformano alle istruzioni impartite
  • ricevono informazioni tramite radio di proprietà (mezzo di produzione) dell’azienda
  • lo spegnimento della radio porterebbe alla risoluzione del suo contratto di lavoro, quindi non v’è libertà autonoma di scegliere se lavorare o meno
  • etc.

Un altro caso, invece, giunto al tribunale di Milano, ha avuto sentenza opposta perché:

  • potevano “astrattamente” spegnere la radio
  • il motorino per le consegne era di proprietà dei ragazzi

Entriamo nel merito della subordinazione. Abbiamo già analizzato la nozione giuridica, l’eterodirezione, gli indici (ed i loro usi); completiamo il discorso guardando alla qualificazione del rapporto di lavoro. Come procedono i giudici per asserire che un certo rapporto di lavoro è subordinato, autonomo o parasubordinato? Se la fattispecie astratta è il lavoro subordinato come la riconduco all’art. 2094 del Codice Civile? Metodi:

  • Il metodo più tradizionale di qualificazione di qualunque rapporto giuridico è definito “metodo sussuntivo”: è un procedimento formale di qualificazione, per cui si riconduce la fattispecie concreta a quella astratta (dal particolare al generale), formulando un giudizio di identità: si controlla se la fattispecie concreta si sovrappone completamente a quella astratta (perfetta coincidenza).
    • Il vantaggio è quello della certezza: se corrisponde perfettamente, si ha la certezza ragionevole della qualificazione.
    • Il limite palese di questo procedimento è che, nel momento in cui, in una certa fattispecie, non si verifichino tutti gli elementi fondamentali (es.: mancanza eterodirezione), non sarà possibile qualificarla.
  • L’altro metodo è quello “tipologico”, importato dal diritto civile privato (De Nova), che, applicato al diritto del lavoro, giunge ad un giudizio di approssimazione: valutando complessivamente gli elementi essenziali della fattispecie concreta, si stabilisce quanto questa si avvicini a quella astratta,
    • Col notevole vantaggio della flessibilità.
    • È intuitivo, però, che sia l’approssimazione stessa il limite di questo secondo metodo.

La giurisprudenza (a differenza della dottrina) difficilmente esplicita il metodo utilizzato, sebbene spesso prevalga il sussuntivo. Nel procedere alla qualificazione del rapporto, emerge una questione che ha visto pronunciarsi la corte Costituzionale. Essa, in particolare nelle sentenze del ’93 e ’94, ha affermato l’indisponibilità del tipo contrattuale, ovverosia: i limiti (quanto e quando) imposti al legislatore o alle parti nella scelta del tipo di contratto. La legge del ’92 prevedeva che “Province, comuni, comunità montane ed enti locali in genere non possono stipulare contratti di lavoro subordinato”.

Questa disposizione era giustificata dalla volontà di ridurre i costi della P.A. Il problema si poneva di fronte ai casi in cui quei soggetti stipulavano con un lavoratore un contratto di lavoro autonomo, ma quel contratto si era svolto, nei fatti, secondo le modalità tipiche del lavoro subordinato, cioè la pratica si discostava da quanto espresso nel contratto. La Corte Costituzionale ha interpretato la disposizione fino a giungere a delle sentenze manipolative: ha respinto l’interpretazione della Cassazione, dandone un’altra e precisando che la P.A. non solo non deve stipulare questi tipi di contratti subordinati, ma non deve nemmeno utilizzarne le forme!

La legge fu abrogata, ma è ugualmente notevole la sentenza della Corte: “non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporto di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura”. Questo perché svuoterebbe di contenuto i diritti inderogabili stessi dei lavoratori subordinati. Se già nel ’93 così si era espressa, nel ’94 ha aggiunto: “se non lo può fare il legislatore, a maggior ragione non sarebbe consentito autorizzare le parti a fare ciò […]”. Le garanzie stabilite dalla Cost. debbono essere sottratte alla disposizione delle parti. Quando le disposizioni sono effettivamente quelle del lavoro subordinato la sua qualificazione non può che essere quella di lavoro subordinato.

Le parti non possono etichettare come lavoro autonomo un rapporto che si sia, di fatto, qualificato come subordinato. La Corte conclude: “… eventualmente anche in contrasto con le stipulazioni effettuate e col nomen juris ”. Ragioniamo sul nomen juris, cioè sulla qualificazione scritta del contratto. Il punto sicuro di approdo è quello secondo il quale l’indice decisivo della subordinazione sta nel concreto modo in cui si svolge il rapporto. Allora non conta nulla il nomen juris? Per molti anni la giurisprudenza (anni’70) ha ritenuto pressocchè irrilevante quanto scritto nel rapporto (la volontà cartolare).

Poi l’autonomia privata è stata rivalutata: quanto conta oggi il nomen juris? È un elemento che rientra negli indici per la valutazione complessiva, e secondo alcuni è addirittura il punto di partenza, non perché questo poi prevalga, ma perché si deve verificare (contratto ≠ rapporto) se vi è corrispondenza di quanto stipulato con quanto realizzato. Il peso del nomen juris è implicito nell’onere della prova (quanto diverge dallo scritto va provato). Capita, ad esempio, che vi sia una simulazione (sulla quale prevale la dissimulazione, come sappiamo da diritto privato), oppure che le parti stesse non si fossero espresse chiaramente (errore motivo/ostativo).

La giurisprudenza più recente (alla competenza dei giudici di merito), fa proprio riferimento alla necessità di “… discostarsi da quella qualificazione solo quando le modalità esecutive siano effettivamente e assolutamente incompatibili con essa …”: solo in questo caso il giudice può rettificare quanto espresso dalla volontà delle parti. Completiamo il discorso guardando ai confini della subordinazione e, in particolare, alcune ipotesi di subordinazione speciale regolate dalla legge, definita dal Codice “in deroga al 2094”. Ci serve per rafforzare la nozione del 2094 stesso.

Ci riferiamo al lavoro a domicilio. Fin dagli anni ’50 esso poneva dubbi sulle sue caratteristiche distintive rispetto al lavoro subordinato aziendale, proprio perché si svolgeva all’esterno dell’azienda. L’ultima disciplina è la legge n° 277 del ‘73. La nostra attenzione ricade sul modo in cui il legislatore ha definito la subordinazione per il lavoratore a domicilio, al 1° comma: “chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio, anche se aiutato da parenti o conoscenti o in un locale di cui abbia disponibilità, lavoro per conto di uno o più imprenditori usando materie prime e strumenti propri dei terzi”. Il secondo comma dice: “la subordinazione agli effetti di questa legge, in espressa deroga del 2094, ricorre quando è tenuto a seguire le direttive del datore, nell’esecuzione parziale o completamento o nell’intera lavorazione di prodotti che siano oggetto dell’attività dell’impresa committente.”

Per soddisfare il presupposto dell’inserimento è sufficiente l’attività lavorativa nel ciclo produttivo, anche se non prestata tra le mura aziendali. Si è di fronte ad un lavoratore a domicilio autonomo, “quando egli abbia” dice la Cassazione “una distinta organizzazione del lavoro, lavori a proprio rischio o abbia una propria organizzazione imprenditoriale”. Il terzo comma dice, con una disposizione antielusiva ed in senso negativo: “non è lavoratore a domicilio, e deve considerarsi dipendente, chiunque esegue lavori locali di pertinenza dello stesso imprenditore anche se per l’uso di locali corrisponde un affitto”. Si riconducono al lavoro subordinato tutte le forme di lavoro svolte in locali non aziendali, ma riconducibili al datore di lavoro.

Il lavoratore a domicilio, ricordiamo, non ha gli stessi diritti del lavoratore subordinato. Di subordinazioni speciali se ne possono incontrare molte altre (es.: lavoro sportivo). Un po’ diverso è il caso, che si pone ai confini del lavoro, dell’associazione in partecipazione. Negli ultimi anni questo fenomeno si è diffuso, ai fini dell’elusione dell’applicazione del rapporto subordinato, tanto che lo stesso legislatore nel decreto di attuazione della legge 30 esplica: “L’associante attribuisce all’associato un diritto a parte degli utili verso il corrispettivo di un determinato apporto”, il cui apporto può essere anche lavorativo. Fino ad oggi la giurisprudenza (Cassazione) ha ritenuto che il requisito essenziale fosse una prestazione correlata agli utili e non ai ricavi.

Tentativi della giurisprudenza sono stati quelli di evitare un rapporto elusivo (=succedaneo/sostitutivo) del rapporto subordinato: è un modo per avere prestazioni lavorative subordinate, senza incontrare tutti costi che gli sono propri. All’art. 86 comma 2 del decreto 276 di attuazione della legge 30 del 2003 (vedi il materiale fornito dal docente), il legislatore interviene “Al fine evitare fenomeni elusivi della disciplina di legge di contratto collettivo …”. Il lavoratore, in pratica, ha diritto ai contributi del lavoratore subordinato della medesima categoria. “a meno che non si comprovi che la prestazione è stata fornita sulla base di altri contratti …”.

Attenzione, non si dice che si trasforma in rapporto di lavoro subordinato, ma dice soltanto che, se non ci sono determinati attributi, comunque il lavoratore ha diritto a quanto spetta a un lavoratore subordinato dello stesso settore. Una diversa ipotesi, che si colloca anch’essa ai confini della subordinazione, è quella del socio lavoratore. Innanzitutto ci sono caratteristiche molto comuni con la subordinazione, quindi viene usato per fornire manodopera eludendo la disciplina del lavoro subordinato.

Fino a prima del 2000, l’orientamento che si era formato era spaccato:

  • La Corte Costituzionale aveva affermato che il socio lavoratore non è subordinato, poiché ha poteri e diritti superiori ad esso.
  • Una sentenza della Cassazione, però, aveva affermato la compatibilità di socio con quella di lavoratore subordinato.

Si giunse alla significativa legge 142 del 2001: dopo aver affermato i diritti dei soci, nell’ultimo comma sostiene: “il socio lavoratore in cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto un ulteriore [e distinto] rapporto di lavoro […] in qualsiasi forma, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali.”. È quindi stata fatta chiarezza, perché è stata distinta la posizione del socio da quella del lavoratore, con una duplicità della posizione. L’art. conclude: “… derivano tutti gli effetti giuridici delle fonti corrispettive”.

Subito dopo l’emanazione della disciplina del 2001 si sono posti alcuni problemi di interpretazione. Sappiamo che la disciplina dei licenziamenti si applica anche al socio lavoratore. Ma se il socio perde la sua posizione, perché viene escluso o recede dalla cooperativa, automaticamente si risolve anche il rapporto di lavoro? Una sentenza aveva stabilito che non fosse legittima una condizione che prevedesse la soluzione automatica del rapporto di lavoro.

La soluzione è stata subito contraddetta dalla legge delega, due anni dopo. Il legislatore ha fatto marcia indietro, viste le pressioni delle cooperative, che dovevano mantenere lavoratori non più soci al loro interno.
Oggi “il rapporto si estingue con il recesso o il licenziamento del socio”.