Le politiche di spesa

Prima della prima guerra mondiale le spese pubbliche ordinarie dovevano finanziarsi mediante le entrate erariali ordinarie ed il deficit doveva essere nullo. Faceva anche parte dell’ortodossia liberale il contenimento delle dimensioni delle amministrazioni pubbliche. Lo Stato doveva limitarsi alle funzioni di provvista dei beni pubblici. I compiti economici erano ridotti alla promozione ed all’amministrazione di beni e servizi pubblici.

Il XX secolo sarà caratterizzato da un ampliamento delle funzioni assunte dagli Stati e dal correlativo incremento della spesa pubblica e delle entrate necessarie per finanziarla.

Dopo le guerre, lo Stato mantenne numerose funzioni, che aveva assunto in via transitoria durante gli anni dei conflitti bellici. Il risultato fu quella spinta continua all’incremento della spesa, messa in discussione solo in anni recenti, quando i partiti conservatori hanno contrastato la voracità fiscale dello Stato ed hanno sostenuto un adeguamento dell’utilizzo delle risorse pubbliche. Fu inevitabile il finanziamento delle spese pubbliche con le imposte sui cittadini, come quella sul reddito (introdotta nel XX secolo), per far fronte a finalità sociali durature.

Le politiche di benessere sociale si fondarono su programmi di sovvenzione pubblica. Gli scandinavi furono i precursori di queste politiche, ma il loro grande fautore fu Lord Beveridge, quando ancora il Regno Unito lottava contro Hitler. Le politiche del benessere sono all’ordine del giorno in quasi tutti i Paesi europei.

I programmi di scolarizzazione obbligatoria furono i più remoti di tale politiche. La prima esperienza di assistenza sanitaria e pensionistica corrisponde alla decade del 1880, nella Germania del cancelliere Bismarck. Il momento più significativa della sua diffusione fu nel secondo del dopoguerra mondiale quando parteciparono i diversi partiti di sinistra in cui era affermato il principio secondo cui bisognava garantire i bisogni minimi della cittadinanza. Dopo la seconda guerra mondiale si svilupparono nell’Europa orientale.

La spesa pubblica destinata al benessere della cittadinanza soffre di una forte rigidità: si tratta di compromessi permanenti, ai quali bisogna far fronte, quali che siano le circostanze in cui si trova l’economia. Al contrario, le imposte sono una funzione diretta delle attività economiche. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: la spesa pubblica è molto stabile, mentre le entrate sono sottoposte molto al ciclo. La saldatura provoca fasi di deficit e fasi di surplus.

Economisti come Keynes e politici di diverso orientamento ideologico provarono a far ricorso alla spesa pubblica deficitaria, come meccanismo per elevare le aspettative economiche (moltiplicatore). Riuscirono a farlo, ricorrendo al finanziamento di programmi di opere pubbliche…. Come Keynes indicò, queste politiche erano giustificate quando l’equilibrio dell’offerta e della domanda aggregate si stabiliva in sotto-occupazione. Quanto più basso era quest’equilibrio, tanto più era indispensabile elevarlo con l’immissione di denaro pubblico.

Il successo di queste politiche, nel trovare una via di uscita dalla crisi economica diede loro un grande credito. Furono conosciute come politiche “keynesiane”, in onore dell’economista britannico che le giustificò teoricamente nella sua grande opera sulla Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Negli anni del dopoguerra il keynesismo influenzò buona parte delle politiche di spesa pubblica. Il deficit nei conti pubblici fu accettato purché fosse giustificato.

Inoltre, il fatto che l’incremento della spesa fosse destinato essenzialmente ad obiettivi sociali, permise di renderlo politicamente accettabile. Nel breve termine, il keynesismo si concretizzò nelle politiche di stop and go, cioè, di freno alla spesa pubblica. Quando la golden age arrivò alla sua fine, tutte le politiche di impostazione keynesiana entrarono in crisi. Nell’Europa del decennio del 1970 il contenimento della spesa pubblica aveva effetti recessivi, ma l’ampliamento non aveva effetti espansivi. I critici del keynesismo furono considerati monetaristi per le loro reinterpretazioni del ruolo macroeconomico del denaro. E’ tornata di moda la giustezza dell’ortodossia fiscale e si è insistito sulla necessità di ridimensionare la spesa pubblica, come di ridurre le imposte.

Le politiche commerciali

Nel XX secolo tutte le altre politiche si potrebbero tradurre in termini di politiche commerciali. La prima guerra mondiale comportò un’enorme introduzione di protezionismo in tutte le politiche nazionali. La proibizione di commerciare con i nemici fu sfruttata dai Paesi neutrali. La guerra sottomarina fece rincarare i costi, fino a divenire, in molti casi, proibitivo commerciare via mare.

Gli anni dal 1919 al 1921 corrisposero ad una precipitosa marcia verso il protezionismo generalizzato. Il colpo di grazia lo diede il Congresso degli Stati Uniti, quando approvò un forte aumento della protezione doganale mediante la cosiddetta tariffa Hawley – Smooth. L’effetto fu tremendo. Se nel 1921 gli Stati Uniti avevano chiuso le porte all’immigrazione, nel 1929 annunciarono l’intenzione di chiudere il loro mercato.

La decade del 1930 fu caratterizzata da una chiusura commerciale sempre più intensa. In alcuni Paesi il fenomeno arrivò fino alla definizione di politiche autarchiche, cioè all’abbandono del commercio estero come fece la Germania.

Invece, in buona parte del mondo, l’involuzione protezionistica favorì l’attuazione di nuove misure di intervento pubblico nel commercio estero. Si moltiplicarono gli accordi di “clearing” (la compensazione bilaterale dei saldi esteri), i pagamenti in contanti ed un’infinità di meccanismi che furono progettati in un contesto di diffidenza e di sfiducia reciproca e che tesero alla generalizzazione del baratto.

Gli accordi di Bretton Woods del luglio del 1944, nacquero con la convinzione che un nuovo ordine economico internazionale doveva garantire il libero commercio. La dichiarazione de L’Avana (1948), basata su una maggiore liberalizzazione degli scambi, doveva trasformarsi nella pietra angolare del nuovo edificio regolatore del commercio internazionale. La difficoltà di fissare delle condizioni di liberalizzazione una volta per tutte fu tanta e la creazione di una Organizzazione per il Commercio Internazionale (Bretton Woods) fallì. Al suo posto si stabilì un accordo con la sigla GATT che non si trasformò in un’organizzazione internazionale fino al 1995, con il nome di Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Le conferenze e l’insieme di negoziazioni furono conosciute come rounds. La più famosa (il Kennedy round, nella decade del 1960) facilitò la riduzione delle tariffe doganali e la libertà di commercio in tutto il mondo. Più importante fu l’Uruguay round che culminò nella creazione dell’OMC.

CEE e l’EFTA dedicarono enormi sforzi alla definizione ed all’applicazione della loro politica commerciale comune. Quest’ultima ha tre grandi ambiti di sviluppo:

  • le relazioni con i Paesi aspiranti all’ammissione;
  • le relazioni con i Paesi poveri;
  • la politica commerciale estera ordinaria.

Il maggiore successo della CEE fu quello dell’integrazione, per tappe, dei Paesi dell’EFTA. Dalla formazione della CEE, nel 1957, fino all’entrata della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Danimarca, nel gennaio del 1973, passano 3 anni molto importanti. Lo stesso tempo per l’ingresso della Spagna e del Portogallo, nel gennaio del 1986, ed altri 9 per l’Austria, la Finlandia e la Svezia, nel 1995 (la Grecia entrò nel 1980). Il buon risultato, in termini di club dell’UE, deve interpretarsi come il trionfo della centralità della politica commerciale. Stare nel club permette di approfittare di una combinazione di politiche strutturali e di politiche commerciali.

Le politiche di stabilizzazione

Si intendono quelle orientate a ridurre la variabilità dei tassi di cambio e dei prezzi.

Poiché la cooperazione internazionale e la negoziazione salariale costituiscono l’abilità nella gestione delle politiche economiche internazionali e nazionali, vi sono sempre state politiche di stabilizzazione.

La prima guerra mondiale significò l’immediata sospensione del gold standard, in quasi tutto il mondo. Le banche Centrali annunciarono che non avrebbero più convertito in oro la moneta. Tutti i Paesi uscirono dal gold standard per controllare l’oro in circolazione e le transazioni internazionali del metallo prezioso.

La sospensione della convertibilità portò ad un incremento della massa monetaria, producendo inflazione. In cambio, gli Stati potevano spendere più di quello che incassavano ma con livelli di inflazione molto superiori.

Con il ritorno alla normalità ritornò il gold standard; le deflazioni furono frequenti. Già nel 1931 alcuni dei più grandi Stati erano tornati ad abbandonarlo. Negli anni ’30 la grande decisione era quella di stabilire se svalutare o no, mentre il gold standard impediva la svalutazione. Il circolo vizioso delle svalutazioni competitive sembrò non finire mai.

Il gold standard non rappresentò più che delle gabbie d’oro per i Paesi che l’adottarono. Eichengreen ristabilisce la validità di Keynes sugli anni ’30, in ogni caso in questi anni il nuovo gold standard andò in crisi in maniera definitiva.

Gli anni ’30 furono l’ultimo periodo di deflazione generalizzata. Durante la seconda Guerra Mondiale, non vi furono politiche di stabilizzazione. La preoccupazione per la stabilità monetaria evitò le iperinflazioni. Alcuni Paesi, che si orientarono verso politiche inflazionistiche furono sollecitati dagli Stati Uniti ad abbandonarle. A questo scopo, l’aiuto del Piano Marshall fu un incentivo poderoso. Verso il 1950 si entrò in un lungo periodo di stabilità monetaria.

Con la sospensione della convertibilità in oro del dollaro nel ’71 e con le crisi petrolifere gli intensi conflitti redistributivi, in tutta Europa, provocarono l’assenza di controllo dell’inflazione. Il recupero di credito delle politiche di stabilizzazione sarà lento. Il decennio successivo alla Seconda Crisi del petrolio assisterà al ritorno all’inflazione della golden age.

Solo l’imminenza della completa integrazione monetaria europea rappresenterà uno stimolo efficace per mobilitare le volontà dei Governi ed il consenso dei cittadini.

Le politiche di cooperazione

Si distinguono in:

  • Nazionali: sono volte all’intermediazione tra le parti sociali (padronali e sindacati)

Si è notato che, maggiore è la frammentazione sindacale, maggiore è il numero degli scioperi, i salari nominali crescono, ma il Governo per assicurare liquidità alle imprese emette moneta e genera inflazione.

La Germania e i Paesi Scandinavi, sono, al contrario, il migliore esempio di organizzazione sindacale, che portò in questi Paesi una drastica riduzione delle conflittualità, ed una buona distribuzione delle entrate.

  • Internazionali: FMI, GATT, Bretton Woods, Marshall, OPEC, CECA, G7, CEE, eccetera.