La globalizzazione

Ne esistono svariate definizioni. Può essere definito come una crescente interdipendenza economica tra i Paesi del Mondo oppure come un’integrazione mondiale dei mercati.

Tra i mercati stessi, si sono integrati molto di più quelli finanziari (borse valori) che non i mercati delle merci e del lavoro.

I fattori determinanti sono stati politici economici e tecnologici.

Telecomunicazioni, informatica e trasmissione dei dati a distanza sono state le basi per lo sviluppo dell’interconnessione delle borse mondiali. Questo è un effetto della deregulation (liberalizzazione ed alleggerimento dei vincoli, caduta dei monopoli nazionali, privatizzazione delle imprese Statali).

Internet ha avuto un impatto inferiore nella UE (Unione Europea) che negli USA, ma non la telefonia mobile.

Il 2001 è stato l’anno del crollo borsistico di queste società “tecnologiche”, che tanto ricordano i cicli delle ferrovie ed elettrici. In linea di massima, si è assistito ultimamente ad un fallimento europeo rispetto all’area del dollaro

Le politiche economiche e sociali

Il tratto caratteristico dell’economia europea del XX secolo è stato il ruolo crescente dello Stato. Il XX secolo europeo è stato sperimentazione politica.

Le politiche dei diritti di proprietà

Il processo storico può andare in due direzioni, la statalizzazione o la privatizzazione. Il XX secolo si inaugura con la rivoluzione bolscevica dell’ottobre del 1917, che provocò l’abolizione della proprietà privata e la sua sostituzione con la proprietà socializzata. L’espropriazione su grande scala e senza indennizzo, realizzata dall’Unione Sovietica, fu uno dei fatti economici più importanti del XX secolo e di tutta l’età contemporanea. I settori conservatori rimasero atterriti e si mobilitarono immediatamente contro l’URSS e contro qualunque barlume di politica comunista.

L’universo politico delle sinistre restò frammentato. La sinistra moderata, socialdemocratica, che aveva appoggiato la rivoluzione del febbraio del 1917, guidata da Kerenskij, si allontanò completamente da Lenin e dal bolscevismo. L’ingresso dei socialdemocratici al governo, nella Germania del dopoguerra, ad immagine e somiglianza del partito comunista dell’Unione Sovietica raffreddarono ancora di più l’entusiasmo del settore riformista e moderato nei confronti della rivoluzione russa. La grande espropriazione bolscevica colpì non solo la proprietà privata dei cittadini russi ma anche quella degli stranieri, che avevano investito in modo massiccio in Russia, provocando un conflitto diplomatico, che avrebbe bloccato le relazioni tra l’URSS ed i Paesi occidentali per molte decadi.

In Spagna, il generale Primo de Rivera espropriò (con indennizzo), nel 1924, tutte le imprese telefoniche e quelle destinate alla raffinazione ed alla distribuzione del petrolio, con l’obiettivo di creare monopolio.

In Italia, Mussolini nazionalizzò la grande banca di investimento e tutti i suoi investimenti, a causa della crisi dell’inizio degli anni ‘30. Il “salvataggio” si realizzò nel 1931 ma ebbe il significato dell’appropriazione, da parte dello Stato, del capitalismo italiano. In questo caso non solo lo Stato italiano non dette indennizzi, ma dovette rimettere in sesto con il denaro pubblico le imprese salvate dal fallimento. Mussolini creò l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) per raggruppare le imprese di carattere industriale nelle sue mani. Anche la Germania di Hitler impose la fusione di imprese. L’interventismo di nuovo tipo di Roosvelt, negli Stati Uniti, incoraggiò la sinistra non comunista a scommettere sulle nazionalizzazioni, come elementi plausibili del suo programma di governo.

Il primo caso fu la nazionalizzazione delle ferrovie francesi, nel 1936. Il governo dittatoriale del generale Franco fu molto attivo al momento di nazionalizzare e di formare nuove imprese di proprietà pubblica, concentrate, nell’Istituto Nazionale dell’Industria (INI).

Dopo la seconda guerra mondiale si verificò una vera e propria ondata di nazionalizzazioni in Europa. Nell’Europa occidentale i grandi Paesi democratici, come la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia, nazionalizzarono alcune delle grandi imprese industriali e di servizi durante gli anni di governo delle sinistre. I servizi pubblici ed i settori industriali con una proprietà più concentrata passarono allo Stato.

Vi furono due tipi di configurazione giuridica per le imprese nazionalizzate:

  1. La soluzione britannica: tentare di conservare il meglio della flessibilità della gestione privata, però, esplicitando che la proprietà era della nazione;
  2. Il modello alternativo, usato in Francia ed Italia, era quello di un’impresa pubblica, responsabile dinanzi ad un dipartimento ministeriale. Nel caso estremo le imprese nazionalizzate si trasformavano in dipendenze pubbliche (ferrovie e, in generale, servizi pubblici).

In Italia si nazionalizzò l’industria elettrica nel 1962. In capo a 2 anni dalle nazionalizzazioni francesi, la Thatcher, nel Regno Unito, cominciava già le prime privatizzazioni. Verso il 1979 l’impresa pubblica aveva raggiunto la massima importanza nelle economie del Regno Unito, della Germania e dell’Italia. La Francia conseguirà questo massimo dopo le nazionalizzazioni del primo governo Mitterand. La Spagna realizzerà anche le nazionalizzazioni delle imprese con perdite, fino al 1983 dopo il secondo shock petrolifero.

Solo dopo il 1989 vi è stata un’accelerazione del movimento grazie alla caduta del socialismo reale che permise e giustificò un processo di privatizzazione su grande scala. Questo capitalismo popolare, che fu la base del progetto thatcheriano o reaganiano, si è diffuso in tutto il mondo. Le privatizzazioni più radicali si sono verificate nell’URSS e negli altri Paesi ex comunisti europei. Nell’Europa orientale, a differenza di quello che è successo nei Paesi occidentali vicini, si è generata una depressione che ha compresso il valore di mercato degli attivi offerti.

L’interventismo pubblico

In generale, l’interventismo pubblico del XX secolo è stato fatto risalire al tentativo di conseguire obiettivi extra – economici, normalmente militari o strategici. Possiamo distinguere:

  • l’interventismo sistematico che conosciamo come pianificazione;
  • l’interventismo selettivo che è quello che si nasconde dietro le cosiddette politiche strutturali;
  • l’interventismo ordinario concentrato in alcuni mercati.

Le politiche di pianificazione

Contemporaneamente alla rivoluzione sovietica, l’Europa assisteva ad un’altra rivoluzione: la pianificazione economica. Si sviluppò prima in Germania, poi in Gran Bretagna per essere abbandonata dopo la 1° guerra mondiale. La recuperarono, nel 1927, i governi di Stalin nell’Unione Sovietica ed i governi fascisti. Nell’immediato dopoguerra, la rivendicarono, i laburisti britannici e, poco dopo, attraversò il Rubicone della destra. Nel 1960 la assumerà il governo franchista. Fece i suoi ultimi passi con il primo governo socialista di Mitterand.

La pianificazione si adattava bene ad un mondo di tecnologie su grande scala e con scarso numero di unità produttive, come gli impianti siderurgici ma andava molto male per tecnologie di uso e gestione individuale, come l’automobile.

Le politiche di sviluppo o strutturali

Le politiche di promozione della crescita economica nelle aree arretrate erano sconosciute prima del 1945. Si diffusero solo a partire dal secondo dopoguerra mondiale. Tali politiche erano propugnate dagli economisti dello sviluppo, che argomentarono la necessità di un deciso impulso pubblico, orientato alla creazione di infrastrutture che permettessero alle regioni o ai Paesi poveri di dotarsi del capitale fisico indispensabile per la loro crescita. Lo sviluppo, dopo la guerra, dei Paesi balcanici distrutti fu il primo caso proposto dal fondatore della “economia dello sviluppo”, Paul Rosenstein – Rodan. I grandi organismi di cooperazione economica, come la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite prima, l’OCSE poi e, sempre, la Banca Mondiale, hanno scommesso su questo tipo di piano. Un esempio di intervento dello Stato fu la creazione della Cassa per il Mezzogiorno (1950). Questo tipo di politiche è alla base della CEE e dell’UE.

Con la crisi e la successiva ristrutturazione industriale degli anni a cavallo degli anni ‘70 e ‘80, le politiche strutturali furono utilizzate per sovvenzionare le regioni ed i settori in declino verso un futuro più promettente. Oggi tutte queste politiche sono collegate a regioni concrete, a settori concreti o a programmi predefiniti, normalmente, di investimento in capitale fisico o in capitale umano.

L’intervento nei mercati

Dal 1914 al 1918 si dispiegò un’ampia gamma di strumenti di intervento. Molti di essi si limitarono ad un mercato concreto, come fu il caso del denaro. In occasione delle mobilitazioni militari precedenti alla seconda guerra mondiale o durante la guerra tornarono gli interventi pubblici tra cui molti furono mantenuti. L’esempio più evidente di intervento transitorio nei mercati è fornito dai libretti di sussistenza. La fissazione di prezzi controllati, da parte delle amministrazioni pubbliche, si è trasformata in routine, in molti Paesi (es. affitti bloccati, salari minimi).

Spesso, la regolamentazione pubblica è arrivata fino a precisare le modalità di produzione e di commercializzazione che sono state messe in discussione solo quando la rivoluzione reaganiana e thatcheriana cominciò a contrastarle sistematicamente.