I fondi chiusi

Parlando degli IPOs, avevamo già detto che i fondi chiusi rappresentano un metodo alternativo di apertura del capitale delle società private a terzi.

I fondi chiusi sono uno strumento finanziario il cui fine è quello di investire in società non quotate, con l’obiettivo di rivenderle, conseguendo un capital gate. In realtà, i fondi chiusi potrebbero investire in qualunque tipo di società, ma vengono privilegiate le società non quotate perché quelle quotate, tipicamente, sono destinate ai fondi aperti, in cui la liquidità è molto alta, a differenza dei fondi chiusi, in cui la liquidità è praticamente nulla.

I fondi chiusi si sviluppano totalmente negli Stati Uniti e arrivano in Italia solo nel 1993, con l’approvazione della legge n. 244, anch’essa totalmente assorbita dal Testo Unico della Finanza. Di maggior rilievo dal punto di vista storico è chi ha chiesto la nascita dei fondi chiusi: i fondi aperti nascono dall’esigenza di diversificare l’investimento da parte dei risparmiatori, mentre i fondi chiusi sono uno strumento che il mercato del risparmio ha riservato maggiormente agli investitori istituzionali. Infatti, le loro caratteristiche, che vedremo più avanti, li rendono adatti per investitori istituzionali e, al massimo, per grandi investitori privati, ma poco idonei per i piccoli risparmiatori.

Per quanto riguarda la parte giuridica, in buona parte si potrebbe ripetere quanto abbiamo già detto, ossia le definizioni di società di gestione del risparmio, di gestione collettiva del risparmio e di fondo comune di investimento. Non resta che vedere la definizione di fondo chiuso, riportata sempre dall’art. 1 del Testo Unico della Finanza: “Il fondo chiuso è il fondo comune di investimento in cui il diritto al rimborso delle quote viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate”. Ciò significa che, in sostanza, i fondi chiusi presentano le stesse caratteristiche dei fondi aperti, con la differenza che il riscatto delle quote può avvenire solo in momenti predeterminati, che devono essere stabiliti nel regolamento. Ciò rende i fondi chiusi molto più stabili dei fondi aperti.

Come accadeva per i fondi aperti, anche la costituzione dei fondi chiusi deve avvenire per iniziativa di una società che, ottenuta l’autorizzazione della Banca d’Italia, sentita la Consob, promuove la Sgr, la quale dovrà individuare una banca depositaria e, se necessario, una rete di vendita, che provveda a sollecitare il pubblico al fine di raccogliere capitali. Tuttavia, quando si parla di fondi chiusi occorre prestare una maggiore attenzione al prospetto informativo, perché questo strumento, a differenza di quanto accadeva nei fondi aperti, non consente di investire o di ritirarsi in qualunque momento: questo è uno dei motivi per cui i fondi chiusi risultano poco adatti ai piccoli risparmiatori, i quali raramente avranno la possibilità di allocare parte del proprio patrimonio in uno strumento che può avere una durata massima di 30 anni. Ricordiamo che, per conferire un minimo di liquidità ai fondi chiusi, il legislatore ne ha consentito la quotazione, ma anche questa presenta una serie di problemi che analizzeremo più avanti. Perciò, il prospetto informativo deve definire chiaramente quali sono gli obiettivi del fondo e quali sono i rischi che gli investitori vanno ad assumere. I rischi dipenderanno molto dal criterio con cui si può costituire un fondo chiuso: per area geografica (rischio Paese), per settore (rischio del settore), ecc¼ Tra questi criteri ricordiamo quello dello stadio di vita delle imprese, che può dare origine a vari tipi di fondo, i quali presenteranno rischi decrescenti mano a mano che si passa dalle fasi iniziali alle fasi finali della vita di un’impresa: venture capital: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese in fase di avvio. Dal momento che si punta quasi esclusivamente sugli imprenditori, sulle loro idee e sulle loro capacità, il rischio è massimo; early stage: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese appena avviate, che hanno la necessità di ricevere appoggio per poter crescere. Il rischio è sempre molto alto, ma si riduce rispetto al punto precedente, poiché si punta su qualcosa di già esistente; expansion: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese già presenti sul mercato ad espandersi, ad aggredire nuovi mercati. Allo stesso livello di rischio troviamo anche il turnaround: si interviene in aziende che vogliono modificare il proprio assetto o necessitano di essere rilanciate. I rischi ovviamente si riducono, perché si tratta di imprese già stabilmente presenti sul mercato; buy out: i fondi vengono costituiti per aiutare gli imprenditori che vogliano vendere le proprie imprese, le quali non hanno bisogno né di espansione né di rilancio. Ovviamente è lo stadio meno rischioso.

Negli ultimi tempi, i fondi più diffusi sono i buy out e i turnaround: il settore buy out è commercialmente il più valido e meno rischioso, mentre il settore turnaround si è espanso perché, in periodo di crisi, sono molte le imprese che non riescono a cavarsela da sole. Chiudiamo questa parentesi circa le indicazioni che il prospetto informativo è tenuto a riportare per rendere effettivamente consapevoli gli investitori e torniamo alla costituzione del fondo, che si trova nella sua prima fase, quella di raccolta. Come nel caso dei fondi aperti, anche nei fondi chiusi deve essere definito un obiettivo minimo di raccolta, che risulta ancora più importante, dal momento che il fondo chiuso raccoglie tutto il capitale in un’unica soluzione e tale capitale deve andare a sostenere i costi di una struttura molto più complicata rispetto a quella necessaria per i fondi aperti. Se gli investitori, dopo aver valutato attentamente il prospetto informativo e il regolamento, conferiscono al fondo i capitali sufficienti, questo può prendere avvio a tutti gli effetti.

La seconda fase è quella dell’impiego ed è una fase molto complicata, perché il mercato su cui vanno ad investire i fondi chiusi è un mercato inesistente, impalpabile, e di conseguenza si pone il problema di reperire le società su cui investire i capitali. Da questo punto di vista, la legge pone alcuni limiti, che però non sono molto stringenti: per esigenze di diversificazione, la Banca d’Italia impone di non investire più del 30% del capitale in società appartenenti allo stesso gruppo e la percentuale scende al 20% qualora il gruppo in questione sia lo stesso che controlla la Sgr incaricata di gestire il fondo. Tali limiti non risultano particolarmente stringenti perché i gestori tendono comunque a diversificare molto gli investimenti per cercate di limitare il rischio. Ricordati questi limiti, esistono due strade per andare a reperire le società su cui investire i capitali: advisory company; ricerca diretta.

La differenza tra queste due strade è sostanzialmente nei costi, che dipendono dal fatto che la Sgr coinvolga o meno un soggetto esterno nella ricerca delle società su cui investire: l’advisory company, infatti, è una società di consulenza, di ricerca, incaricata di selezionare i possibili investimenti per conto della Sgr che poi li metterà in atto; con la ricerca diretta, invece, la Sgr seleziona autonomamente i propri investimenti. La scelta tra l’uno o l’altro metodo dipende dalla specializzazione della Sgr stessa: se la Sgr fa capo ad una rete di vendita, probabilmente sarà molto forte dal punto di vista commerciale e non avrà problemi a raccogliere il capitale minimo necessario per la costituzione del fondo, ma non sarà particolarmente capace dal punto di vista della gestione del rischio, perciò dovrà rivolgersi ad un’advisory company; al contrario, se i componenti della Sgr risultano particolarmente esperti dal punto di vista della gestione del rischio, l’advisory company non sarà necessaria, ma potrebbe esserlo una rete di vendita esterna, che non avrà capacità di gestione ma sarà in grado di attrarre capitali. Quindi, la scelta tra le due metodologie dipende semplicemente dalla capacità della Sgr di raccogliere un deal flow (flusso di opportunità di investimento): se la Sgr non ha questa capacità dovrà rivolgersi ad un’advisory comapany, pur dovendo sostenere costi superiori; se la Sgr ha questa capacità, l’advisory company non sarà necessaria e i costi risulteranno più contenuti.

Sia che la selezione avvenga tramite un’advisory company, sia che avvenga attraverso la ricerca diretta, si partirà da un certo numero di proposte di investimento che verranno analizzate e via via scartate, per arrivare a scegliere solo le più interessanti. Supponiamo che il numero di business plain proposti inizialmente sia pari a 100. Sicuramente alcuni di questi risulteranno macroscopicamente svantaggiosi, perciò verranno cestinati immediatamente: supponendo che i business plain che ricevono questo trattamento siano 40, resteranno in gioco ancora 60 proposte. Queste 60 proposte verranno sottoposte ad un’analisi piuttosto approfondita e immaginiamo che, dopo questa analisi, ne vengano scartate altre 35, che per vari motivi potevano non risultare interessanti. Le 25 proposte rimaste verranno analizzate ancora più approfonditamente, e questa volta non si valuterà solo il business plain nel suo complesso, ma anche la capacità dell’imprenditore di portarlo avanti. Supponendo che, dopo questa ulteriore analisi, vengano scartare altre 10 proposte, ne resteranno solo 15, in cui troviamo veramente il meglio di quanto ci era stato offerto. La Sgr o l’advisory company procederà perciò ad una progressiva esclusione, che però dipenderà da cause veniali, che non riguardano più né il business né il management. Dalle 15 proposte ancora in gioco si arriverà così a sceglierne 3.

Il processo di selezione degli investimenti è molto delicato perché, se anche non consideriamo le prime proposte, che vengono scartate immediatamente, per tutte le altre bisognerà prendere in considerazione una grande quantità di aspetti che possono risultare rilevanti. Tale processo prende il nome di due diligence e andrà ad analizzare tutti gli elementi che possono costituire fattori di successo o di crisi per una determinata società. A tale proposito, sarà sicuramente necessaria un’analisi finanziaria, ma anche un’analisi fiscale, perché il fondo non vorrà sicuramente investire in un’impresa che rischia di dover pagare pesanti multe a causa della precedente evasione fiscale dell’imprenditore. Sarà poi importante un’analisi legale, perché, se l’impresa ha molto successo, ma non è supportata de brevetti o concessioni che possono essere ottenuti da altre imprese, rischia di andare fuori mercato o comunque di trovarsi coinvolta in una battaglia legale che il fondo non ha la minima voglia di affrontare. Ancora, sarà importante un’analisi lavoristica, che si occupa di stabilire se l’impresa intrattiene un rapporto regolare con i suoi lavoratori, così come un’analisi retributiva, che si preoccupa di accertare se l’impresa è in grado di operare sul mercato per reali capacità oppure per una sottoretribuzione dei propri dipendenti rispetto alle imprese concorrenti. Sarà anche significativa un’analisi ambientale, che, se per le imprese di dimensioni medio-grandi non è particolarmente necessaria, lo è invece per le piccole imprese, che spesso non prestano attenzione agli aspetti ambientali e rischiano così di essere sottoposte a ingenti multe. La due diligence, quindi, va a toccare tutti questi e altri aspetti molto rilevanti, per individuare eventuali punti deboli e punti di forza delle società in questione.

Sempre nella fase di impiego, diventa importante anche il rapporto che si instaura tra il fondo e gli imprenditori a capo delle società finanziate. Parlando degli IPOs avevamo già visto i conflitti di interesse che nascono tra imprenditori e investitori: se i primi tendono a sopravvalutare la propria impresa, richiedendo quindi un prezzo molto alto per i propri titoli, i secondi mirano invece a pagare il meno possibile per ottenere un rendimento superiore. Nel caso dei fondi chiusi, questi conflitti di interesse emergono chiaramente, perché il fondo investe in maniera importante nelle società, e questo può portare alcuni dei gestori del fondo ad entrare a far parte del consiglio di amministrazione delle società finanziate, ossia ad avere rapporti diretti con gli imprenditori. Se con gli IPOs il rapporto che si veniva a creare tra imprenditore e investitori era molto limitato, con i fondi chiusi i nuovi soci intervengono direttamente e discutono con l’imprenditore sul modo migliore per gestire l’azienda: si mette così in atto una sorta di monitoraggio, con il quale i gestori del fondo seguono da vicino le imprese su cui hanno investito, per assicurarsi che esse seguano il business plain presentato e che non si verifichino condizioni di mercato che portino il business plain in una situazione diversa da quella inizialmente ipotizzata.

Alla fase di impiego seguirà la terza fase, quella di dismissione del fondo. Il sistema di dismissione che la teoria economica classica predilige è quello della quotazione in borsa, ma tale sistema diventa adeguato solo in fondi che si occupano di fasi come la early stage e il turnaround: infatti, in questi casi il fondo interviene in aziende che non hanno la capacità di accedere alla borsa e che hanno quindi bisogno di un sostegno alternativo per raggiungere i requisiti necessari alla quotazione. Inoltre, anche quando i fondi riguardano queste fasi, si tratta di uno schema puramente teorico, perché sappiamo che le quotazioni avvengono solo quando il mercato è realmente in grado di assorbirle.

Ipotesi di dismissione alternative alla quotazione in borsa sono la vendita e la cessione ad altri fondi.