L’intermediazione e l’interposizione nel rapporto di lavoro

Introduzione
Questo fenomeno si manifesta sotto forme giuridiche diverse: fornitura o somministrazione della forza – lavoro, interposizione nel cottimo, appalto e subappalto. Tratto comune di questi fenomeni è la presenza di un intermediario tra i prestatori di lavoro e le imprese utilizzatrici.
Il profitto dell’intermediario / interposto è ottenuto ricavando un margine di lucro dalla differenza tra il monte – salari dei lavoratori occupati e il costo del salario sopportato dall’impresa committente.
In questa prospettiva si può comprendere il motivo per cui il legislatore, nel 1960, ha sancito un generale “divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro”.
Diversamente dall’attività della mediazione si presenta come interposizione nei rapporti di lavoro.
L’attività intermediaria è finalizzata al soddisfacimento della domanda delle imprese attraverso la selezione dei lavoratori da assumere e la stessa gestione o utilizzazione della forza – lavoro da essi offerta. L’intermediazione assume il carattere dell’interposizione nell’esecuzione del contratto di lavoro e nell’impiego della manodopera assunta dallo stesso intermediario e da lui messa a disposizione dell’imprenditore (cosiddetta somministrazione o fornitura).
Accanto a queste fattispecie interpositorie l’economia odierna realizza fattispecie di vero e proprio decentramento produttivo come l’esternalizzazione ossia segmenti dell’attività dell’impresa all’esterno dell’azienda principale. Queste forme di decentramento si caratterizzano per il ricorso a tipologie diversificate di contratti sia commerciali, sia di lavoro, idonee a soddisfare il fabbisogno produttivo e di forza lavoro dell’impresa.
Il divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro.
La materia dell’intermediazione è disciplinata dalla Legge 23 ottobre 1960, numero 1369 che pone all’articolo 1, comma 1, il divieto di intermediazione ed interpretazione: “è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”.
Il richiamo alle società cooperative trova la sua giustificazione nel fatto che la costituzione di cooperative fittizie è una delle tecniche più frequenti per eludere il dettato normativo.
Ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 “è altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società, anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari”.
Il terzo comma stabilisce che “è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per l’esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante”.
La sanzione è severa: i prestatori di lavoro occupati in violazione dei divieti posti dalla legge sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato la loro prestazione. In virtù di tale utilizzazione il contratto concluso con l’intermediario viene conservato e funge da presupposto per la surrogazione soggettiva legale dell’imprenditore al datore di lavoro intermediario. E’ prevista anche una sanzione penale.
In conclusione, tutte le fattispecie previste ed esplicitamente vietate dall’articolo 1 della Legge numero 1369 sono riconducibili o alla cosiddetta somministrazione di lavoro altrui o al cosiddetto pseudo – appalto.
Nello pseudo – appalto si è in presenza di una fornitura al committente, da parte dell’appaltatore, di mere prestazioni di lavoro, mentre non esiste né un’organizzazione propria di quest’ultimo, né tanto meno una gestione di impresa a proprio rischio.
Gli appalti interni ed esterni all’azienda. L’azione diretta di rivalsa.
Il legislatore ha inteso evitare che questo tipo di contratto sia utilizzato per eludere norme poste a tutela del lavoratore.
La legge numero 1369 ha posto una distinzione tra gli appalti esterni, regolati dal diritto comune, e gli appalti che, svolgendosi all’interno dell’azienda, sono sottoposti ad una particolare disciplina protettiva dei dipendenti dell’appaltatore.
Per quanto riguarda gli appalti interni, la giurisprudenza nell’interpretare il riferimento contenuto nell’articolo 3 della Legge numero 1369 agli appalti “da eseguirsi nell’interno delle aziende”, ha fatto riferimento ad un criterio “funzionale”, e cioè all’esistenza di un collegamento con il normale ciclo produttivo dell’impresa appaltante.
A questo riguardo la Legge 18 giugno 1998, numero 192, ha disciplinato il cosiddetto contratto di subfornitura. Secondo la definizione legale un imprenditore si impegna:

    1. Ad effettuare in favore del committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime, ovvero
    2. A fornire prodotti o servizi destinati ad essere utilizzati dal committente nell’esercizio della sua attività economica.

Si tratta di un contratto finalizzato a realizzare una stretta integrazione produttiva tra le attività dei due imprenditori e dunque a disciplinare un fenomeno di decentramento produttivo che può essere riconducibile alla fattispecie prevista dall’articolo 3 della Legge numero 1369.
Tornando agli appalti interni l’articolo 3 della Legge numero 1369 dispone una responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore (che si prolunga fino ad un anno dopo la cessazione dell’appalto) nei confronti dei lavoratori dipendenti da quest’ultimo. E’ evidente, peraltro, che nell’imporre siffatta responsabilità solidale, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di estendere ai dipendenti delle imprese appaltatrici i trattamenti più favorevoli previsti dai contratti collettivi applicati nell’impresa committente (cosiddetta uniformità di trattamento).
In termini diversi si pone il problema con riguardo alle norme che attengono all’attività sindacale e alla stabilità del posto di lavoro. In queste ipotesi si dovrà fare riferimento esclusivo al rapporto di lavoro con l’appaltatore.
L’articolo 5 della Legge numero 1369 prevede un certo numero di deroghe alla normativa contenuta nell’articolo 3, indicando in casi in cui non si applica la regola dell’uniformità di trattamento. Si tratta di ipotesi in cui il legislatore ha presunto l’autonomia imprenditoriale dell’appaltatore, esonerandolo dalla rigidità dei vincoli imposti dalla Legge numero 1369.
In conclusione in tutti i casi di appalto vige la tutela posta dall’articolo 1676 codice civile, in base alla quale i lavoratori dipendenti dall’appaltatore “possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda” (cosiddetta azione diretta di rivalsa).