L’imposta sul reddito delle società

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I SOGGETTI PASSIVI

L’IRES (Imposta sul Reddito delle Società) è un’imposta proporzionale (con aliquota fissa 27,5%), i cui soggetti passivi sono tutti quegli enti collettivi non già considerati dall’IRPEF. Non sono soggette ad IRES le società di persone i cui redditi sono imputati direttamente ai soci, nonché quegli enti pubblici che il legislatore precisa essere esenti (organi ed amministrazioni dello stato, comuni, province, regioni, eccetera). Affinché nessun ente sfugga all’imposizione sono da considerarsi soggetti passivi IRES:

  • i trust – da assimilare ad enti commerciali o non commerciali a seconda che il loro oggetto principale sia (o meno) lo svolgimento di attività commerciale;
  • le associazioni non riconosciute ed i consorzi.

Più in generale, il legislatore considera espressamente soggetti passivi IRES: ogni altra organizzazione, non appartenente ad altri soggetti passivi, nei confronti della quale il presupposto si verifichi in modo unitari ed autonomo” (es. comitati e fondazioni). In particolare, riclassificando (in base alle differenti discipline con riguardo alla determinazione del reddito complessivo netto cui sono soggette) le diverse classi di soggetti passivi IRES previste dal legislatore (società di capitali, enti commerciali, enti non commerciali, e società ed enti non residenti) si possono distinguere:

  • società di capitali ed enti commerciali residenti;
  • enti non commerciali residenti;
  • società ed enti commerciali non residenti;
  • enti non commerciali non residenti.

In questa ideale matrice assumono rilievo la residenza o non-residenza dei soggetti passivi e l’oggetto commerciale o non-commerciale. Con riguardo alla residenza fiscale italiano vi sono alcune presunzioni legali, per cui si presumono residenti (fino a prova contraria):

  • le società estere che detengono partecipazioni di controllo in società italiane e che a loro volta sono controllate da soggetti residenti, od amministrate da un organo prevalentemente composto da residenti in Italia;
  • i trust esteri istituiti in Paesi con cui non sono stati stipulati trattati che prevedono lo scambio di informazioni qualora almeno un disponente ed un beneficiario siano residenti in Italia.

IL PROBLEMA DELLA DOPPIA IMPOSIZIONE NEI SOGGETTI A SCOPO DI LUCRO

A differenza di quelli privi di finalità lucrative, i soggetti con scopo di lucro non sono i “soggetti ultimi” dell’imposizione, in quanto il reddito da essi prodotto è destinato ai soci: nasce dunque il problema di coordinare la tassazione delle società con quella dei dividendi del socio – onde evitare (od almeno attenuare) la doppia imposizione economica. Tale problema prima del 2004 era risolto dal sistema del credito d’imposta per cui i redditi delle società di capitali tassati presso la società erano nuovamente tassati a carico del socio, ma la doppia tassazione economica era eliminata dal credito d’imposta attribuito al socio in misura pari all’imposta dovuta dalla società sugli utili distribuiti. La riforma del 2004 ha soppresso il sistema del credito d’imposta per i dividendi distribuiti da società residenti (che rimane, invece, invariata per i redditi provenienti dall’estero), sostituendovi una nuova disciplina, ai sensi della quale:

  • i dividendi distribuiti a soci società non sono tassati (od al più al 5%);
  • i dividendi distribuiti a soci persone fisiche subiscono una tassazione ulteriore, ma ridotta onde ridurre gli effetti della doppia tassazione.

Anche in ambito IRES (così come avviene, invece, obbligatoriamente nelle società di persone) qualora ne venga esercitata l’opzione, il problema della doppia imposizione viene risolto dal regime della trasparenza – la società non è infatti tassata per i redditi prodotti, che sono invece imputati ai soci nei soli confronti dei quali sorgerà il debito d’imposta.

REDDITO DELLE SOCIETA’ ED ENTI DI TIPO COMMERCIALE

Il reddito delle società di tipo commerciale è un reddito omogeneo in quanto non rappresenta la somma di redditi distinti per categorie, ma deve considerarsi (ex lege) reddito d’impresa indipendentemente dalla fonte di provenienza. E’ quindi un reddito determinato sulla base del bilancio: si assume come punto di partenza il reddito globale lordo civilistico (al quale bisognerà ricondurre il reddito eventualmente calcolato secondo i principi contabili internazionali – contenuti negli IFRS) che andrà dunque rettificato sulla base variazioni (aumentative e diminutive) derivanti dall’applicazione delle norme fiscali sul reddito d’impresa.

IL RIPORTO DELLE PERDITE

La perdita registrata in un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per il calcolo del reddito, può essere portata in diminuzione del reddito dei periodi successivi, ma non oltre il quinto periodo (eccetto con riguardo alle perdite dei primi tre periodi, per cui non sono previste limitazioni temporali). La ratio della norma risiede nel considerare che l’utile generato in un esercizio, prima ancora che rappresentare incremento di patrimonio della società, dovrà ricostituire il capitale distrutto dalle perdite eventualmente verificatesi negli esercizi precedenti. Le società che fruiscono di regimi di esenzione del reddito (come le imprese marittime non i regime di tonnage tax, il cui reddito è esente all’80%) possono riportare solo una perdita proporzionalmente ridotta della stessa misura dell’esenzione applicabile sul reddito imponibile. Le società che godono di beneficio di esenzione dell’utile (come le cooperative) il riporto è limitato alle sole perdite che eccedano l’utile detassato negli esercizi precedenti. Per evitare forme elusive (con riguardo ai casi in cui il soggetto che riporta le perdite sia nominalmente lo stesso, ma sostanzialmente diverso da quello che ha realizzato le perdite) il legislatore ha stabilito che la norma del riporto non sarà applicabile:

  • nei casi di mutamento della maggioranza delle partecipazioni avente diritto al voto nell’assemblea ordinaria;
  • nei casi di modificazione dell’attività principale rispetto ai periodi d’imposta nei quali si sono verificate le perdite.

Un fenomeno a natura elusiva, un tempo molto frequente, era infatti quello per cui imprese in perdita, per cui vi era intenzione di chiudere l’attività, vendevano invece la quota di maggioranza a soggetti che rilevavano la società per iniziare una nuova attività, al solo scopo di sfruttare la perdita riportabile registrata dalla società originaria.

DEFINIZIONE DI ENTI NON COMMERCIALI

Secondo la regola generale, sono enti non commerciali tutti quegli enti che non svolgono in via principale un’attività commerciale (esempio le fondazioni, gli enti ecclesiastici, i comitati, le associazioni culturali, sportive, politiche sindacali, eccetera). Se le società di capitali (così come le cooperative e le società di mutua assicurazione) sono considerate commerciali a fini fiscali in ragione della loro forma giuridica (indipendentemente dallo svolgimento di un’attività commerciale), per gli altri enti si pone il problema di distinguere se siano o meno enti commerciali – e la qualificazione sarà effettuata in base all’attività svolta (se rientra o meno tra quelle indicate nell’art.2195 c.c.). Più in particolare, nella qualificazione di un ente come commerciale, il TU stabilisce che:

  • l’oggetto è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistente in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata;
  • per “oggetto principale” si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto (e se manca atto costitutivo o statuto nelle forme richieste, l’oggetto principale si valuterà sulla base dell’attività effettivamente esercitata).

TASSAZIONE DEGLI ENTI NON COMMERCIALI

La posizione degli enti non commerciali si differenzia da quella degli enti commerciali (i cui redditi sono tutti redditi d’impresa) ed è per certi versi simile a quella delle persone fisiche ed infatti, come queste ultime, possono assumere redditi provenienti da categorie diverse ed il calcolo del reddito complessivo si ottiene sommando i redditi di ogni categoria, determinato ciascuno secondo le proprie regole (e se vi sono perdite derivanti da attività d’impresa devono essere portate in diminuzione dei redditi della stessa fonte). Anche per tali enti, inoltre, come per le persone fisiche, vi sono oneri deducibili dalla base imponibile, nonché oneri detraibili dall’imposta. Con riguardo ai redditi d’impresa, qualora l’ente non commerciale svolga attività d’impresa questi è tenuto ad iscrivere una contabilità separata, distinguendo ciò che inerisce all’attività d’impresa da ciò che inerisce all’attività istituzionale. La distinzione fra beni relativi all’attività d’impresa dell’ente e beni estranei è basata sugli stessi criteri applicati agli imprenditori individuali: sono beni dell’impresa quelli strumentali all’attività d’impresa, ed in generale i beni inventariati. Cori riguardo alla deducibilità dei componenti negativi di reddito:

 

  • le spese specificamente inerenti l’attività d’impresa sono deducibili per intero;
  • le spese inerenti ad attività non imponibili non sono deducibili;
  • le spese promiscue sono deducibili solo in parte (e più precisamente sono deducibili in misura corrispondente al rapporto tra ammontare dei ricavi e proventi che formano il reddito d’impresa e l’ammontare complessivo dei proventi dell’ente).

Gli enti non commerciali che (non superando determinati parametri con riguardo al volume d’affari) sono ammessi al regime di contabilità semplificata possono optare per la determinazione forfettaria del reddito d’impresa, calcolata su una percentuale della somma dei componenti positivi.

GLI ENTI DI TIPO ASSOCIATIVO

Affinché un’attività associativa sia qualificata come attività non commerciale, e dunque sia esclusa dall’applicazione delle ordinarie regole fiscali dell’impresa:

  • deve trattarsi di un’attività interna, rivolta cioè agli associati ed ai partecipanti;
  • non dev’essere retribuita con corrispettivi specifici.

Sono inoltre previste particolari regole per associazioni politiche, sindacali, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica. Per tali associazioni anche le attività svolte verso corrispettivo non sono commerciali, a patto che:

 

  • siano svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali;
  • nello statuto siano previste particolari clausole, tra cui:
  • divieto di distribuire utili;
  • devoluzione del patrimonio dell’ente ad altro analogo in caso di scioglimento.

LA DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA

Il reddito d’impresa è determinato apportando all’utile od alla perdita risultanti dal conto economico le variazioni in aumento/diminuzione conseguenti all’applicazione degli IFRS e norme fiscali. Ne consegue che:

  • il reddito rilevante a fini fiscali è quello civile, determinato secondo le regole del codice civile ;
  • gli enti che adottano gli IFRS sono obbligati a correggere il loro conto economico per poterlo ri-adattare ai criteri civilistici;
  • il conto economico è il punto di partenza, ed in questo caso le norme fiscali non determinano le componenti del reddito ma esprimono solo eccezioni in deroga a quanto descritto dal bilancio civilistico per il reddito ottenuto.

IL BILANCIO SECONDO GLI IFRS

A differenza del bilancio civilistico, i principi internazionali prevedono l’iscrizione di molte voci col principio del fair value, che determinano minus/plusvalenze non effettivamente realizzate. Alcuni plusvalori secondo gli IFRS sono imputati a stato patrimoniale, non concorrendo alla formazione del reddito e quindi della base imponibile. A fini fiscali, nel nostro ordinamento, dovremo adeguare i risultati di bilancio a quelli civilistici.

LE NORME FISCALI IN TEMA DI REDDITO D’IMPRESA

Il legislatore fissa delle norme fiscali che possono comportare variazioni al risultato del conto economico, classificabili sotto diversi punti di vista:

  • a seconda di chi avvantaggiano:
    • a tutela del contribuente (agevolazioni);
    • a tutela del fisco (come quelle sulla certezza di certe valutazioni di per sé incerte come le rimanenze di merci o gli ammortamenti);
    • neutre;
    • in base al principio derogato:
      • deroghe sul principio di competenza;
      • deroghe che prevedono forfetizzate;
      • in base agli effetti diminutivi/aumentativi:
        • aumento base imponibile a seguito di aumento di voce positiva;
        • aumento base imponibile a seguito di diminuzione di voce negativa;
        • diminuzione base imponibile a seguito di diminuzione di voce positiva;
        • diminuzione base imponibile a seguito di aumento di voce negativa;
      • in base alla dimensione temporale degli effetti:
        • norme che determinano variazioni temporanee;
        • norme che determinano variazioni definitive.
      • in base alla ratio:
        • norme con ragioni anti-elusive (esempio la deducibilità delle spese per cellulari solo al 50%, o l’assunzione a ricavi dell’autoconsumo);
        • norme che rispondo ad esigenze di certezza (esempio la determinazione di un massimo deducibile per accantonamento a fondo svalutazione crediti);
        • norme con intenti agevolativi;
        • norme che mirano ad evitare la doppia imposizione (esempio esenzione dividendi al 60%).

VARIAZIONI IN AUMENTO ED IN DIMINUZIONE

Fra le norme che segnano un aumento di voce positiva richiamiamo quelle che:

  • impongono l’assunzione a ricavi del valore normale dei beni e merci destinati ad autoconsumo;
  • imposizione del valore normale nell’ipotesi di transfer price.

Più frequenti sono le diminuzioni di voci negative (attraverso la non deducibilità in tutto o in parte) dovute alla loro corrispondenza a componenti positivi non tassabili, o per mancanza del principio di inerenza; altre diminuzioni di voci negative sono legate al principio di competenza. La riduzione dell’imponibile può dipendere dal fatto che il conto economico contenga ricavi/proventi esenti od esclusi (in quanto non soggetti al regime ordinario di tassazione).

PRINCIPIO DI COMPETENZA

Nel diritto tributario, come nel diritto civile, l’imputazione temporale dei componenti che concorrono a determinare il reddito dev’essere fatta applicando il principio di competenza economica (in contrapposizione al principio di cassa): il principio di competenza attribuisce rilievo all’aspetto economico dei ricavi, ed i costi vengono imputati correlati ai ricavi (in altri termini i costi sono deducibili solo nella misura con cui concorrono alla formazione dei ricavi dell’esercizio). In particolare, il codice civile stabilisce:

  • la cessione dei beni mobili ha effetto con la consegna/spedizione (o la data posteriore in cui si ha effetto traslativo);
  • la cessione di immobili ha effetto con la stipulazione dell’atto;
  • la prestazione di servizi ha rilievo a completamento della prestazione o alla maturazione dei corrispettivi per le prestazioni periodiche.

DEROGHE AL PRINCIPIO DI COMPETENZA

Anche se di competenza del periodo, non sono deducibili i costi incerti (o non del tutto certi) nell’”anno” (il “se” il costo dovrà essere effettivamente sostenuto) anche se determinabili nel “quantum”. Anche i ricavi non sono imponibili se incerti. Seguono, invece, il principio di cassa (e non quello di competenza):

  • oneri fiscali contributivi;
  • compensi dovuti agli amministratori;
  • interessi di mora;
  • utili delle partecipate non distribuiti;
  • plusvalenze ottenute in modo dilazionato o rateizzato;
  • sopravvenienze attive a titolo di contributo o liberalità.

BENI DELL’IMPRESA E VALORE FISCALMENTE RICONOSCIUTO

Qualificare un bene come “bene dell’impresa” significa assoggettarlo al sistema di regole che concernono il reddito d’impresa (per cui per un bene che entra a far parte della sfera dell’impresa, si determina la deducibilità dei costi, e simmetricamente la tassazione delle plusvalenze da realizzo). Per le società sono beni dell’impresa tutti quelli che si posseggono. Per le imprese individuali (dove l’imprenditore è proprietario sia di beni personali che dell’impresa) il legislatore si preoccupa di individuare analiticamente quali beni siano “relativi all’impresa”:

 

  • beni merci;
  • beni strumentali;
  • crediti acquisiti nell’esercizio d’impresa;
  • beni inventariati.

Una volta individuati i beni dell’impresa bisognerà distinguere se la loro cessione genera ricavi o plusvalenze, riclassificandoli in categorie:

  • beni merce (come materie o semilavorati – acquisiti o prodotti per essere impiegati nella produzione) che generano ricavi;
  • beni strumentali (beni inseriti durevolmente nel processo produttivo, e che concorreranno quindi a cicli produttivi di più esercizi) che generano minus e plusvalenze;
  • beni meramente patrimoniali (da intendersi come categoria residuale da individuare per esclusione rispetto a beni merci e beni strumentali – esempio immobili acquistati a scopo d’investimento) che generano minus e plusvalenze.

Per stabilire la categoria di appartenenza di un bene bisogna aver riguardo alla sua correlazione con l’attività d’impresa e non al bene in sé (esempio un macchinario è merce per l’impresa che lo produce per venderlo, mentre è bene strumentale per l’impresa che lo acquista per inserirlo nel proprio apparato produttivo). Il legislatore, infine, assoggetta allo stesso trattamento fiscale dei beni merce, qualora non siano iscritte in bilancio tra le immobilizzazioni finanziarie:

  • partecipazioni in società ed enti commerciali;
  • strumenti finanziari assimilati ad azioni.

Con riguardo alla valutazione a fine esercizio (così come nel bilancio civilistico):

  • i beni merce sono valutati come rimanenze (con funzione di trasferire il costo dei beni invenduti da un esercizio all’altro, così da imputare il costo di acquisto all’esercizio in cui il bene genera i ricavi);
  • beni strumentali e beni meramente patrimoniali sono invece rilevati al costo nello stato patrimoniale (e solo il costo dei beni strumentali è ammortizzato, a partire dall’esercizio in cui entrano in funzione).

Tale distinzione ha rilevo anche con riguardo alle eventuali diminuzioni di valore, in quanto:

  • le variazioni delle giacenze di magazzino concorrono sempre a formare reddito;
  • le minusvalenze degli altri beni assumo rilievo solo quando realizzate.

SINGOLE COMPONENTI DI REDDITO, I RICAVI

Le norme sul reddito d’impresa in materia di componenti positivi disciplinano:

  • criteri identificativi dei diversi tipi di componenti;
  • le fattispecie che ne determinano la rilevanza;
  • i criteri di determinazione.

Ricavo per eccellenza è il corrispettivo della cessione di una merce o della prestazione di servizi. Va tenuto presente il principio di competenza, per cui: non si ha ricavo quando viene incassato il corrispettivo, ma quando si verifica uno degli eventi che, secondo il principio di competenza determina il “momento impositivo” (passaggio materiale per la cessione di un bene mobile, stipulazione dell’atto per cessione di bene immobile, ultimazione della prestazione per un servizio). Nella categoria dei ricavi in senso fiscale individuiamo (ex art.85 T.U.) alcune sottoclassi:

  • corrispettivi di cessioni di beni o servizi inerenti all’attività d’impresa;
  • corrispettivi di cessioni di materie od altri beni impiegati nella produzione (esclusi quelli strumentali);
  • corrispettivi di cessione di azioni non immobilizzate;

A questi si assimilano:

  • indennità qualora conseguite a titolo di risarcimento per la perdita od il danneggiamento di beni la cui cessione genera ricavi (in quanto tali indennità sostituiscono ricavi);
  • “contributi in conto esercizio” (generalmente erogati ad imprese che praticano prezzi non remunerativi per ragioni sociali – tali contributi pubblici hanno funzione di integrare ricavi)
  • fuoriuscite senza corrispettivo (in generale, per destinazione del bene a finalità estranee all’esercizio d’impresa) da valutarsi sulla base del “valore normale”.

PLUSVALENZE PATRIMONIALI

Le plusvalenze sono differenze positive tra due valori dello stesso bene in tempi diversi, con riguardo a beni la cui cessione non genera ricavi (quindi non beni-merci, o titoli finanziari non immobilizzati – la cui cessione dà invece luogo a ricavi). La plusvalenza è determinata come differenza tra un valore finale (valore di realizzo – o quello normale, es. in caso di autoconsumo) ed un valore base (il valore fiscalmente riconosciuto – al netto degli ammortamenti fiscalmente riconosciuti). Tale differenziale assume rilievo fiscale solo quando effettivamente realizzato – ed in particolare:

  • quando vi è realizzo mediante cessione a titolo oneroso, risarcimento, conferimento di società;
  • per distacco del bene dall’impresa mediante assegnazione ai soci (in generale per destinazione del bene a finalità diverse da quelle dell’impresa);
  • trasferimento che comporta una perdita della residenza fiscale italiana (le plusvalenze sono tassate in quanto il bene fuoriesce dalla sfera impositiva dell’ordinamento italiano e questo sarebbe l’ultimo momento in cui il plusvalore potrebbe essere tassato).

A fini agevolativi è stabilito che la plusvalenze realizzate derivanti da beni patrimoniali posseduti per almeno 3 anni (in quanto componenti reddituali a formazione pluriennale) possano, a scelta del contribuente, anche essere ripartite nell’esercizio in corso e nei successivi (ma non oltre il quarto).

PLUSVALENZE DA PARTECIPAZIONI IMMOBILIZZATE

Le plusvalenze derivanti da partecipazioni immobilizzate sono generalmente tassate per intero. Qualora si presentino, invece, i requisiti della “partecipation exemption“, tali plusvalenze (così come i dividendi derivanti da tali partecipazione) saranno tassate solo parzialmente – in una logica di non doppia imposizione, piuttosto che di agevolazione. Affinché si possa applicare tale regime sono necessarie alcune condizioni:

  • le partecipazioni devono essere detenute ininterrottamente dal primo giorno del 18esimo mese precedente quello dell’alienazione;
  • le partecipazioni devono essere iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie dal primo bilancio dall’acquisto.
  • la società partecipata non deve avere sede in paese privilegiato (elencato nella “lista nera”);
  • la partecipata deve svolgere effettiva attività commerciale.

Il Fisco può disconoscere le classificazioni di bilancio che abbiano carattere elusivo. Le conseguenze del regime di partecipation exemption sono:

  • esenzione all’95% delle plusvalenze realizzate (fino al 2007 era l’84%) – e 60% per l’imprenditore individuale;
  • le minusvalenze realizzate sono fiscalmente irrilevanti (quelle meramente iscritte – e non realizzate – lo sarebbero in ogni caso);
  • per gli imprenditori individuali le minusvalenze realizzate sono deducibili al 40%.

L’esenzione delle plusvalenze porta con sé l’indeducibilità dei costi connessi; i dividendi derivanti da tali partecipazione sono invece esclusi da tassazione, e ciò ne comporta la deducibilità dei costi. Tenuto conto della ratio di non doppia imposizione, non avrebbe senso estendere l’esenzione, oltre alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni, a quelle derivanti dalla cessione d’azienda (che sono invece tassate per intero). Infine, sono soggetti a stessa disciplina quegli strumenti assimilabili ad azioni e contratti di associazione in partecipazione che rispettino tali requisiti.

SOPRAVVENIENZE ATTIVE

Le sopravvenienze attive sono eventi che modificano componenti positivi che hanno già concorso alla formazione del reddito in esercizi precedenti:

  • le sopravvenienze attive in senso stretto possono, ad esempio, derivare:
    • da ricavi conseguiti in un periodo successivo ma di competenza di uno precedente;
    • dalla sottovalutazione dei ricavi;
    • da sopravvenuta insussistenza di componenti negative;
    • le sopravvenienze attive in senso lato derivano da un avvenimento estraneo alla normale gestione dell’impresa:
      • indennità risarcitorie per beni le cui plusvalenze non costituiscono ricavi;
      • proventi conseguiti a titolo di contributi o liberalità (la cui tassazione è rateizzabile in 5 anni).
      • contributi pubblici in conto capitale.

E’ espressamente previsto che non costituiscano sopravvenienze attive (e non sono quindi tassati):

  • i versamenti dei soci a fondo perduto od in conto capitale;
  • la riduzione dei debiti derivante da rinuncia di un credito da parte dei soci.

REGIME DEI DIVIDENDI PER I SOGGETTI IRES

Nei casi in cui si applica il principio di trasparenza, gli utili delle società partecipate si imputano ai soci a prescindere dalla distribuzione di dividendi. Per i dividendi distribuiti da società residenti ed estere (non collegate o controllate appartenenti alla “lista nera” – che sono tassati interamente, salvo si esperisca con successo interpello disapplicativo), percepiti da società residenti soggette ad IRES:

  • in regime di consolidato i dividendi non sono tassati (ed in sede di dichiarazione di gruppo il risultato civilistico va rettificato in diminuzione, eliminando dal reddito della controllante i dividendi distribuiti dalle controllate)
  • se non si applica il consolidato né la trasparenza, si ha esclusione dei dividendi nella misura del 95% (ed i costi inerenti saranno deducibili).

INTERESSI ATTIVI

Gli interessi attivi (con eccezione degli interessi di mora) – a differenza dei dividendi – concorrono a formare il reddito imponibile secondo il principio di competenza. Qualora la misura non sia stabilita con contratto scritto andranno computati al saggio legale. Tali regole valgono per interessi attivi derivanti da:

 

  • mutui e depositi;
  • conti correnti bancari e postali;
  • obbligazioni e titoli similari (anche se rappresentati da “scarto di emissione” che andrà ripartito per competenza secondo il pro rata temporis);
  • per dilazione di pagamento (se derivanti da cessione di beni-merce);
  • derivanti da ritardo nel rimborso d’imposta
  • da pronti contro termine.

IMMOBILI E PROVENTI IMMOBILIARI

Anche gli immobili devono essere classificati entro le categorie di:

 

  • beni strumentali;
  • beni-merce;
  • beni meramente patrimoniali.

La regola generale è che gli immobili appartenenti alle imprese non sono fonte di redditi fondiari ma concorrono alla produzione del reddito secondo le regole ordinarie in tema di reddito d’impresa. Nel solo caso degli immobili meramente patrimoniali, il loro reddito – pur essendo reddito d’impresa – è quantificato in base alle stime catastali, non rilevando in conto economico (e non si terrà quindi conto dei proventi e costi effettivi); saranno calcolati secondo estimo del catasto anche i redditi derivanti da terreni inerenti all’esercizio di attività agricola.

PROVENTI NON REDDITUALI

Non concorrono alla formazione di reddito, in quanto operazioni meramente patrimoniali.

  • sovrapprezzi nell’emissione delle azioni;
  • conguaglio utili nell’emissione di azioni.

Poiché queste operazioni hanno natura di conferimento, nell’annullamento di azioni proprie la differenza tra costo delle azioni annullate (la società che le ha annullate le ha dovute prima acquistare) e la corrispondente quota del patrimonio netto non rileva a fini reddituali.

DEDUCIBILITA’ DEI COSTI

Le regole generali in tema di deducibilità dei costi sono tre:

 

  • il principio di competenza (e valgono le stesse regole applicabili ai componenti positivi);
  • il principio di inerenza;
  • il principio iscrizione a Conto Economico.

Vi sono, poi, regole specifiche concernenti singole tipologie di costi. Il principio dell’inerenza è quello per cui un costo è deducibile se sostenuto in funzione della vita dell’impresa: la questione se una spesa sia inerente o meno è frequente punto di attrito tra contribuenti ed uffici fiscali. Vi sono alcune deroghe al principio di inerenza:

  • gli oneri di utilità sociale, pur non essendo inerenti la vita dell’impresa, possono essere limitatamente deducibili;
  • con riguardo ai costi non riferibili ai proventi e ricavi imponibili:
    • quelli che si riferiscono ad attività o beni imponibili od a proventi esclusi sono integralmente deducibili;
    • quelli che si riferiscono esclusivamente ad attività/beni esenti non sono deducibili;
    • quelli che si riferiscono promiscuamente ad operazioni imponibili ed operazioni esenti sono solo parzialmente deducibili.

Vi sono poi costi non soggetti alla regola dell’inerenza, come gli oneri fiscali. Il principio di previa imputazione a Conto Economico è quello per cui i componenti negativi non sono deducibili se non sono imputati al Conto Economico dell’esercizio di competenza>> (eventualmente rettificato dai principi IAS). A tale principio si oppongono alcune deroghe, per cui si possono dedurre anche:

  • componenti negativi iscritti nel C.E. di un esercizio precedente, se la deduzione è ammissibile solo nei periodi successivi (es. costi incerti);
  • componenti che, pur non essendo iscritti a C.E. , sono deducibili a norma di legge (esempio compensi a promotori e soci fondatori);
  • spese ed altri oneri che afferiscono specificamente ai ricavi ed altri proventi e che, pur non risultando imputati a C.E. , concorrono a formare il reddito (la deducibilità dei “costi neri” correlati a “ricavi neri”, non dichiarati);
  • con riguardo ad alcuni costi stimati, è stabilito che siano deducibili solo qualora vengano indicati in apposito prospetto della dichiarazione:
  • l’eccedenza dell’accantonamento fiscale rispetto a quello civilistico;
  • il valore fiscale e valore civilistico del fondo rischi;
  • l’ammontare dell’ammortamento fiscale superiore a quello civilistico;
  • la differenza fra l’ammontare dei canoni leasing e gli oneri imputati a C.E. (nel caso di metodo patrimoniale di contabilizzazione);
  • l’ammontare delle spese relative a studi e ricerche non imputabili a Conto Economico.

IMPOSTE DIFFERITE

Talune norme fiscali (in tema di ammortamenti, rettifiche di valori ed accantonamenti) consentono deduzioni che (del tutto od in parte) non sono operate nel conto economico – a patto che siano “annotate” assieme ai valori dei beni e dei fondi passivi cui si riferiscono, in apposito prospetto (che riporta l’eccedenza dei valori fiscali rispetto a quelli civilistici). Il prospetto è parte integrante della dichiarazione dei redditi, e condiziona la deduzione dei maggiori costi in esso indicati: si ha così una riduzione dell’imponibile rispetto all’utile civilistico e la contemporanea insorgenza di una quota di utile civilistico non tassato. Tali costi dedotti extra contabilmente devono trovare copertura nelle riserve e negli utili esposti in bilancio che verranno posti in regime di sospensione d’imposta: le imposte correlate alle riserve in sospensione, non essendo dovute come imposte di quell’esercizio, devono essere stanziate come imposte differite corrispondenti a quelle che saranno pagate negli esercizi successivi, quando i valori civilistici riassorbiranno i valori già dedotti fiscalmente. Difatti, le differenze di valore che nascono in deduzione dei costi in via extracontabile sono differenze solo temporanee destinate ad essere riassorbite con l’imputazione a CE degli stessi costi dedotti extra contabilmente. Qualora una parte delle riserve in sospensione d’imposta venga distribuita ai soci prima di essere “liberata dal vincolo”, la quota corrispondente concorrerà a formare il reddito imponibile e, dunque, sarà tassata: le riserve in sospensione d’imposte (corrispondenti agli utili non tassati) dovranno essere mantenute intatte fino alla loro liberazione, se non si vuole perdere il beneficio della non tassazione. In particolare sarà tassata solo quella differenza negativa tra totale delle riserve ed utili che residuano dopo la distribuzione e la somma dei costi dedotti extra contabilmente. La ratio della norma è dunque quella di evitare distribuzione di utili non tassati formatisi per effetto della deduzione fiscale di costi non transitanti per il conto economico – in assenza di tale meccanismo gli utili non tassati affluirebbero direttamente nella sfera dei soci definitivamente esenti da IRES.

SPESE PER PRESTAZIONI DI LAVORO

Le spese per prestazioni di lavoro sono integralmente deducibili, anche qualora si tratti di liberalità. Vi sono però alcuni limiti:

  • i fringe benefit sono deducibili per la quota per cui corrispondono effettivamente a reddito;
  • altri limiti quantitativi sono previsti per spese di vitto e alloggio sostenute in trasferta.

In deroga al principio di competenza, i compensi agli amministratori seguono il principio di cassa. La partecipazione agli utili dei dipendenti non segue il principio di previa imputazione a conto economico (in quanto è ovvio che non possa essere già stato imputato l’utile a conto economico).

INTERESSI PASSIVI

Con riguardo alla deducibilità degli interessi passivi, la previgente disciplina (che prevedeva l’utilizzo delle regole di “thin capitalization rule”, “pro-rata patrimoniale” e “pro-rata ordinario”) è stata sostituita da una normativa molto più semplice. Gli interessi passivi sono interamente deducibili fino a concorso con gli interessi attivi tassabili, e per la restante quota non oltre il 30% del risultato operativo lordo (calcolato come differenza tra ricavi e costi afferenti all’area caratteristica, ad esclusione di canoni di leasing ed ammortamenti). Qualora il 30% del ROL fosse superiore all’eccedenza di interessi passivi su quelli attivi, la quota inutilizzata potrà essere portata ad incremento dei ROL degli esercizi successivi. Tale norma (che, come la previgente normativa, punta a limitare l’uso del c.d. tax shield – ma attraverso una più generale irrilevanza fiscale parziale degli oneri passivi) limita la deducibilità degli interessi solo quando si verifica una bassa redditività caratteristica.

LA PREVIGENTE DISCIPLINA

Nella previgente disciplina, per la determinazione della quota di interessi passivi deducibile si applicava all’ammontare totale degli interessi passivi prima la thin capitalization rule che escludeva la deducibilità di una determinata percentuale di interessi, poi il pro-rata patrimoniale (che ne escludeva un’altra quota), e dunque (sulla parte residua) il pro-rata ordinario. La thin capitalization rule era prevista onde evitare elusioni riguardanti la preferenza per una società di richiedere finanziamenti ai soci (che producono interessi passivi deducibili), piuttosto che l’apporto di capitale a titolo di capitale proprio (la cui remunerazione costituisce invece reddito per la società, imponibile). La regola della thin capitalization prevedeva che:

  • i finanziamenti dei soci qualificati superiori ad un determinato importo producessero interessi passivi non deducibili;
  • la remunerazione del socio finanziatore fosse considerata dividendo ai fini fiscali.

Tale norma si applicava (salvo che il socio non dimostrasse che l’ammontare dei finanziamenti erogati dai soci poteva essere anche ottenuto da un terzo finanziatore) qualora:

  • il socio avesse controllato (direttamente o indirettamente) il 25%;
  • il finanziamento del socio avesse superato di almeno 4 volte al quota di patrimonio netto di propria competenza.

Il pro rata patrimoniale limitava la deduzione degli interessi passivi nel caso in cui la società avesse detenuto in portafoglio partecipazioni soggette alla “partecipation exemption”. Per garantire una simmetria fiscale con l’esenzione delle plusvalenze rientranti nelle participation exemption, era stata disposta l’indeducibilità di tutti i costi – compresi gli interessi passivi (per cui era calcolata una corrispondente quota non deducibile) – afferenti tali partecipazioni. Erano escluse nel calcolo della quota di interessi non deducibile nel pro-rata patrimoniale le partecipazioni in società incluse nel consolidato (nazionale o mondiale), e le partecipazioni in società con reddito tassato per trasparenza. Il pro rata ordinario prevedeva che gli interessi passivi fossero deducibili solo per la parte corrispondente al rapporto fra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi (così da escludere quelli relativi a proventi esenti).

ONERI FISCALI, CONTRIBUTIVI E DI UTILITA’ SOCIALE

Sono oneri fiscali indeducibili:

  • la somma pagata per l’imposta stessa (in quanto conseguenza del reddito, e non costo di produzione);
  • le imposte per cui è prevista la rivalsa (anche se facoltativa – esempio l’IVA, in quanto non rappresenta un costo per l’impresa);
  • l’IRAP (in quanto conseguenza del reddito, e non costo di produzione).

Sono invece oneri fiscali deducibili:

 

  • le altre imposte (secondo il principio di cassa);
  • l’IVA indetraibile;
  • i contributi sindacali (da computarsi per cassa), a condizione che siano dovuti in base a formale deliberazione dell’associazione;
  • oneri di utilità sociali verso i terzi.

LE MINUSVALENZE

A fini fiscali, le minusvalenze:

  • non sono rilevanti quando “iscritte”, ma solo quando sono effettivamente realizzate.
  • non sono rilevanti se si riferiscono alla cessione di partecipazioni soggette “partecipation exemption” (possedute ininterrottamente per 12 mesi, anziché 18);
  • sono rilevanti se derivano da partecipazioni a cui non si applica il regime della “partecipation exemption”;
  • per gli imprenditori individuali, se derivanti da partecipazioni “partecipation exemption”, sono indeducibili al 60% (la percentuale esente).

SOPRAVVENIENZE PASSIVE

Le sopravvenienze passive sono la “voce negativa speculare” alle sopravvenienze attive – si hanno quando si verifica:

  • il mancato conseguimento di ricavi od altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi;
  • il sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi od altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi;
  • la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio in precedenti esercizi.

Ad esempio, rientrano fra le sopravvenienze deducibili gli abbuoni e sconti concessi alla clientela in un periodo d’imposta successivo a quello in cui si sono contabilizzati i ricavi derivanti dalla vendita del bene-merce.

LE PERDITE

Le perdite sono una componente negativa deducibile che riguarda:

  • quei beni dell’impresa che possono generare minus/plusvalenze;
  • le perdite su crediti, per la quota non già accantonata in esercizi precedenti a Fondo Svalutazione Crediti.

Tali perdite sono deducibili solo se risultano da elementi certi e precisi ed in misura pari al costo non ammortizzato. La perdita sui crediti è deducibile quando il credito viene ceduto o quando si ha effettiva insolvenza:

  • è deducibile in ogni caso la perdita relativa ad un debitore soggetto a procedura concorsuale;
  • è deducibile per inesigibilità se l’insolvenza del debitore risulta da elementi certi e precisi (esempio da un pignoramento infruttuoso).

AMMORTAMENTI DI BENI MATERIALI

L’ammortamento tributario è soggetto ad alcune variazioni rispetto a quelle civilistiche:

  • sono previsti coefficienti di massimo ammortamento, stabiliti annualmente con decreto ministeriale;
  • sono ammortizzabili solo i beni strumentali, non quelli patrimoniali non inerenti l’attività d’impresa;
  • le quote di ammortamento sono deducibili a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene (solo per metà quota nel primo esercizio di entrata in funzione).

Con riferimento all’aliquota è:

 

  • ammortamento ordinario quello fatto entro il limiti del decreto ministeriale;
  • ammortamento accelerato (od intensivo) quello fatto oltre i limiti, qualora si fosse dimostrato un uso più intensivo rispetto a quello solito per il settore d’appartenenza;
  • ammortamento anticipato, quello fatto oltre i limiti, ma a fini agevolativi – ad esempio:
  • per i beni inferiori a 516,46 si poteva dedurre tutto al primo esercizio;
  • alle imprese che hanno una concessione amministrativa e devono, dopo un certo numero di anni, devolvere il bene alla proprietà pubblica, era concesso un ammortamento finanziario anche oltre le aliquote previste dal Ministero.

Con la finanziaria 2008 è stata abrogata la norma che consentiva la deduzione fiscale di ammortamenti anticipati ed accelerati, con lo scopo di aumentare il gettito nel breve periodo.

AMMORTAMENTI IMMATERIALI

Tra gli ammortamenti immateriali si distinguono quelli:

  • per i diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, ammortizzabili in un minimo di 2 anni;
  • per i marchi e l’avviamento, ammortizzabili in un minimo di 18 anni;
  • per le concessioni, ammortizzabili in misura massima dedotta dalla durata contrattuale.

SPESE INCREMETATIVE

Le spese incrementative sono quelle che incrementano il valore fiscalmente riconosciuto di un bene (se patrimonializzate). Quelle non patrimonializzate dovrebbero essere distinte in costi pluriennali ed annuali. Il legislatore ha però semplificato con una presunzione assoluta:

  • nell’esercizio in cui sono state sostenute, tali spese sono deducibili al 5% del costo complessivo dei beni materiali ammortizzabili;
  • l’eccedenza è ammortizzabile a quote costanti nei 5 esercizi successivi.

SPESE PER STUDI E RICERCHE, SPESE DI PUBBLICITA’, SPESE DI RAPPRESENTANZA

Le spese per studi e ricerche sono interamente deducibili nell’esercizio in cui sono sostenute, anche in deroga (facoltativa) al principio di competenza. Le spese di rappresentanza, vista la dubbia inerenza, sono deducibili solo per 1/3 del loro ammontare complessivo. Le spese di pubblicità differiscono da quelle di rappresentanza in quanto, a differenza di queste ultime, si riferiscono ad un prodotto e non all’impresa in generale: sono interamente deducibili, come quelle per studi e ricerca.

ACCANTONAMENTI

La disciplina civilistica di bilancio impone l’iscrizione dei costi anche solo probabili in appositi fondi rischio, destinati a far fronte a costi (anche solo probabili) di competenza dell’esercizio in corso ma che non si siano ancora manifestati. A fini fiscali, invece, costi e spese sono deducibili solo quando sono certi sia nell’”anno” che nel “quantum” – per cui gli accantonamenti fiscalmente deducibili costituiscono un’eccezione a tale regola generale. Sono dunque ammessi solo quelli tassativamente indicati dal legislatore:

  • accantonamenti TFR (e simili) ed a fondi previdenza del personale dipendente (in quanto si riferiscono ad un debito certo nell’anno e nel quantum, di cui è incerta solo la data);
  • accantonamenti a Fondi Svalutazione Crediti, consentiti annualmente entro un massimo del 0,5% del valore nominale dei crediti, fino ad un massimo del 5% totale.

Quando si verificano delle perdite, la deduzione è ammessa solo per la parte che supera l’accantonamento già dedotto.

LE RIMANENZE DI MAGAZZINO

Anche le variazioni delle rimanenze di beni-merci intervengono nel calcolo del reddito. La valutazione delle rimanenze finali si effettua raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e valore ed assumendo come criterio di valutazione, in primo luogo, il costo. Come nei criteri civilistici, anche a fini fiscali la valutazione sarà al minore fra valore di costo e valore di presumibile realizzo. Si dà dunque rilievo fiscale alla svalutazione dei beni-merce. Le rimanenze, nel primo esercizio in cui si verificano sono valutate in base al costo medio ponderato. Per espressa previsione, per le successive variazioni di magazzino si applica il criterio del LIFO (si considerano alienati per prima i beni facenti parte degli incrementi formatisi in esercizi precedenti, distinti per esercizio di formazione a partire dall’incremento più recente): il reddito imponibile risulta quindi compresso. Qualora l’impresa – a fini civilistici – usi altri criteri di valutazione (FIFO, CMP, LIFO a scatti) le è data facoltà di adottarli anche a fini fiscali. Si applicano grossomodo le stesse regole previste per i beni merci ai:

  • prodotti in corso di lavorazione;
  • servizi in corso di esecuzione;
  • lavori in corso su ordinazione.

Allo stesso modo, infine, andranno valutati titoli e partecipazioni non iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie.

I GRUPPI

Il diritto fiscale prende in considerazione i gruppi di società, ossia l’insieme di società tra cui intercorrono rapporti di controllo e collegamento. A seguito della riforma del 2003, in alternativa alla tassazione distinta di ciascuna società, i gruppi possono optare per il regime consolidato – e qualora non sussistano le condizioni per il consolidato, vi è anche la possibilità di applicare il regime di trasparenza. I due regimi presentano un vantaggi evidenti:

  • la non tassazione dei dividendi;
  • l’utilizzo immediato delle perdite fiscali.

LA GRANDE TRASPARENZA

Il regime di trasparenza è un congegno che realizza la tassazione esclusiva del socio, imputando direttamente ad esso i redditi della società. Le Società per Azioni (e le S.a.p.A.) possono optare per il regime della “grande trasparenza” solo qualora siano esclusivamente possedute da altri soci-società, che singolarmente non detengano partecipazioni inferiori al 10% o superiori al 50%. L’opzione per la trasparenza dev’essere espressa sia dalla partecipata che dalla partecipante. Qualora adottata, l’opzione è irrevocabile per 3 esercizi sociali e non si può adottare se la partecipata ha già optato per il consolidato o se i soci partecipanti fruiscono di un’aliquota IRES ridotta. Se manca una condizione, il regime perde efficacia a partire dall’esercizio sociale in corso. Se vi sono soci non residenti, l’esercizio dell’opzione è consentito a condizione che non vi sia l’obbligo di ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti: quindi paesi UE, Svizzera, ed eventualmente altri stati extra-comunitari purché non vi sia una ritenuta sugli utili in uscita dall’Italia.

DISCIPLINA ED EFFETTI DEL REGIME DI TRASPARENZA

Come per la trasparenza nelle società di persone, il regime di trasparenza prevede che il reddito prodotto dalla società sia imputato a ciascun socio (come le perdite, entro il limite della quota conferita – come gli accomandanti delle S.a.s.) indipendentemente dall’effettiva percezione, proporzionalmente alla propria quota di partecipazione. Per le perdite fiscali anteriori all’esercizio dell’opzione:

  • quelle della partecipata possono essere usate per compensare i redditi dei soci-società successivi all’applicazione della trasparenza;
  • quelle del socio possono compensare solo i suoi redditi, non quelli della partecipata.

L’applicazione del regime di trasparenza comporta:

  • l’irrilevanza fiscale della successiva distribuzione dei dividendi;
  • che le ritenute d’acconto e versamenti anticipati siano imputati ai soci;
  • che l’obbligo per la partecipata di dichiarare il proprio reddito (da cui questa non è sollevata) non faccia derivare alcuna imposta (che deriva invece dall’imputazione ai soci);
  • che la partecipata sia solidamente obbligata (è responsabile d’imposta) coi soci con riguardo

all’imposta, alle sanzioni ed agli interessi conseguenti all’obbligo di imputazione del reddito.

La disciplina della trasparenza prevede, inoltre, che:

  • l’imputazione del reddito avviene nei periodi d’imposta delle partecipanti in corso alla data di chiusura dell’esercizio è riferita a quello della partecipata;
  • nei confronti di ciascun socio debba essere emesso un diverso avviso d’accertamento sulla base di quanto accertato unitariamente nei confronti della partecipata.

LA PICCOLA TRASPARENZA

Il regime di trasparenza può essere adottato anche dalle “piccole” S.r.l. (e dalle cooperative) la cui compagine sociale sia esclusivamente composta da persone fisiche: in questo modo la tassazione è presso ciascun socio (con IRPEF) – piuttosto che nei confronti della società (con IRES) e poi verso i soci (nella distribuzione dei dividendi). Per applicare il regime di trasparenza alle S.r.l. devono sussistere tre condizioni:

  • il volume dei ricavi non deve superare le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore;
  • devono esserci solo “soci persone fisiche”, al più nel numero di 10 (20 per le società S.c.a.r.l., società cooperative a responsabilità limitata);
  • la società non deve essere assoggettata a procedure concorsuali, né aver optato per il consolidato.

Se la S.r.l. detiene partecipazioni soggette a “partecipation exemption”, sia i dividendi che le plusvalenze saranno imputati nella determinazione del reddito tassabile per il 40%.

CONSOLIDATO NAZIONALE

Il consolidato nazionale, così come quello mondiale, è un istituto previsto con la riforma del 2003. Il consolidato fiscale è radicalmente diverso dal consolidato civilistico: il bilancio civilistico è un bilancio in cui la pluralità delle società è rappresentata come un soggetto unitario, mentre il bilancio fiscale è semplicemente una somma dei risultati fiscali conseguiti da ogni società singolarmente – ed il risultato globale è imputato alla controllante che deve presentare un’unica dichiarazione contenente il risultato consolidato di gruppo (ed eventualmente riportare la perdita). Ne scaturisce un unico debito d’imposta che deve essere dichiarato dalla capogruppo (relativo al totale dei redditi delle controllate), ed è soggetto passivo – per l’intero importo – la controllante: le controllate sono invece responsabili solo per la parte del debito che è da collegare al loro reddito e per le relative sanzioni. L’opzione per il consolidato può essere esercitata dalle società (ed altri enti commerciali) tra cui intercorre (sin dall’inizio del periodo in cui si esercita l’opzione) un rapporto di controllo di diritto (con maggioranza sia dei voti in assemblea che degli utili distribuiti), sia diretto che indiretto tenuto conto degli effetti del demoltiplicatore in presenza di catene societarie (non si considera quindi il semplice fatto di detenere la maggioranza di una società che a sua volta detiene la maggioranza di una terza società – rileva invece l’effettiva quota posseduta, calcolata moltiplicando le frazioni di quote possedute sul totale). Affinché l’opzione sia efficace occorrono, infine:

  • l’identità dell’esercizio sociale di ciascuna controllata con quello della controllante;
  • l’esercizio congiunto dell’opzione da parte di ciascuna controllata;
  • l’elezione a domicilio da parte della controllata presso la sede della controllante, per potervi qui notificare gli atti;
  • la comunicazione all’Agenzia delle Entrate entro il 20esimo giorno del sesto mese successivo al periodo d’imposta precedente al primo in cui si deve esercitare l’opzione.

L’opzione è esercitata dalla controllante, e le controllate possono decidere se aderire o meno. Inoltre è possibile che nello stesso gruppo vi siano più consolidati: non essendo, infine, necessario che la controllante sia anche capogruppo, è possibile che vi siano più “consolidamenti a strati”. Le società non residenti possono optare per il consolidato solo qualora:

  • abbiano residenza in un paese dove vige una convenzione anti doppia imposizione;
  • esercitino in Italia un’attività d’impresa mediante una stabile organizzazione, nel cui patrimonio sia compresa la partecipazione in ciascuna controllata inclusa nel consolidato.

RAPPORTI INFRA-GRUPPO COL CONSOLIDATO

I rapporti tra società del gruppo sono agevolati dal regime consolidato:

  • i dividendi sono interamente non tassati;
  • non è invece più prevista l’iniziale possibilità di assoggettare a regime di neutralità fiscale i trasferimenti di beni diversi da “beni-merce” (es. partecipazioni).

Sono, infine, previste talune norme anti-elusive proprio con riguardo alla cessione di beni tra le società infra-gruppo.

RETTIFICHE DI CONSOLIDAMENTO

Il reddito complessivo è dato dalla somma dei redditi, o delle perdite, delle partecipate (considerate autonomamente ed indipendentemente dalla quota posseduta) – apportando infine delle rettifiche di consolidamento:

  • variazione diminutiva per una quota corrispondente all’imponibile dei dividendi distribuiti dalle controllate (così che si realizzi la detassazione degli utili all’interno del gruppo);
  • non sono più previste variazioni aumentativa/diminutiva per effetto della rideterminazione del pro-rata patrimoniale né per cessioni neutrali infragruppo.

ASPETTI PROCEDURALI

La dichiarazione dei redditi deve essere presentata dalla capogruppo, alla quale le controllate devono fornire gli elementi necessari alla formazione della dichiarazione del consolidato:

  • dichiarazione dei redditi, cui è allegato il modulo degli oneri dedotti extra – contabilmente;
  • fornire collaborazione alla controllante per l’adempimento degli obblighi fiscali.

Ciascuna società è debitrice per le maggiori imposte (sanzioni ed interessi) che sono dovute al suo reddito complessivo. La controllante è invece debitrice sia per il suo reddito sia per quello delle controllate.

RESPONSABILITÀ

Il consolidato comporta l’insorgere di un unico debito d’imposta dichiarato dalla capogruppo, che è soggetto passivo per l’intero importo: le controllate sono solo responsabili per la parte di debito globale a loro ricollegabile. La responsabilità esterna va però tenuta distinta dai rapporti infra-gruppo che sono gestiti dall’accordo di consolidamento.