Scambi internazionali e sistemi monetari

L’Europa e l’economia mondiale

Nel corso dell’Ottocento il commercio internazionale conobbe un incremento prodigioso.

A causa della preponderanza britannica e della stabilità della sterlina, si mantenne durevolmente sotto il segno del gold standard. Nel periodo compreso tra il 1815 e la prima guerra influirono:

  1. il progresso tecnologico: il settore inglese dipendeva per le materie prime dall’Asia e le Americhe. Flusso opposto ebbero prodotti tessili, ferro e acciaio, prodotti chimici e ingegneristici. Il fenomeno dell’imitazione industriale permise di sostituire beni importati con beni prodotti internamente.
  2. il forte aumento delle risorse naturali
  3. la rivoluzione dei trasporti: si pensi ai canali (Suez, Panama, Rotterdam), che ridussero i costi di trasporto.
  4. la crescita della popolazione mondiale: passaggio da 0,9 a 1,6 miliardi di abitanti. Le emigrazioni stabilirono legami culturali, oltre che economici (ad esempio, l’uniformarsi di salari e stipendi dei diversi continenti).
  5. l’accumulazione di capitali: l’unica nazione in grado di autofinanziarsi inizialmente fu l’Inghilterra, ma successivamente molti Paesi followers accelerarono tale performance.

 

L’affermazione del liberismo e lo sviluppo del commercio internazionale

Il tasso di crescita più elevato del commercio internazionale si ebbe nel periodo del libero scambio (1842-1873). Dopo vi fu un incremento, ma meno accentuato, a causa del protezionismo.

Ricordiamo (da Eco.Pol.II): 1. l’incidenza del commercio internazionale è tanto più rilevante sul PIL quanto lo Stato è piccolo e specializzato in alcuni settori, infatti Olanda e Danimarca erano Paesi molto aperti. 2. un processo di multilateralizzazione, ovvero il processo per il quale non fu più necessario aver una bilancia commerciale (vedi Eco. Pol.II) in pareggio con ogni singolo partner, permettendo maggiore flessibilità.

Il pensiero liberista si concretava nel superamento di barriere naturali e di barriere artificiali (dazi, e proibizioni).

Si è concluso che il protezionismo elevato abbia solo effetti negativi, anche se alcuni teorizzano che un minimo di restrizioni possano essere concepibili. Fatto sta che nessun Paese giunse all’industrializzazione privo di proibizioni.

La maggior parte degli Stati si rifaceva a principi mercantilistici che sostenevano che la bilancia commerciale dovesse presentare un attivo.

L’illuminismo e l’industrializzazione portarono, fin dalla seconda metà del Settecento, a nuove idee.

Adam Smith (The Wealth of Nations), Ricardo e Mill giunsero alla teorizzazione del free trade (libero mercato).

Smith sostenne che la ricchezza aumenta con l’aumentare dell’efficienza nell’allocazione delle risorse.

In questo senso, Ricardo mostrò la “legge dei costi comparati” e la “divisione internazionale del lavoro”.

Il punto comune tra questi autori fu il concetto di “Mano Invisibile” espressa in primis da Smith, ovvero che la soppressione di limiti al commercio porta ad un’allocazione ottimale di fattori e produzioni.

I Governi, soprattutto quelli delle nazioni forti, tentarono di agevolare il raggiungimento di “equilibrio naturale” delle economie. List sostenne, infatti, che il liberismo agevolasse i Paesi già sviluppati, mentre per quelli in via di sviluppo il protezionismo fosse necessario per passare da un’economia agricola ad industriale.

Purtroppo le guerre ed il ribasso dei prezzi (che non potevano essere rialzati eccessivamente con le tassazioni) costrinsero i Governi a concentrare il carico fiscale sulle dogane. Tipiche furono le Corn Laws inglesi (dazi sull’import del grano).

L’industriale Cobden formò la lega contro le Corn Laws, sostenendo (vedi Eco. Pol I) che se il prezzo del pane sale, allora si abbassano i consumi anche degli altri beni (“industriali” compresi).

Ciò sfociò nel trattato Cobden-Chevalier (1860) fra G.B. e Francia che diede l’incipit ai rapporti liberisti tra tutte le nazioni.

Prevedeva, tra l’altro, una clausola che legava i due paesi anche per quanto riguarda i rapporti con nazioni terze: qualora un contratto fosse stato stipulato dalla Francia (o dall’Inghilterra) con un altro Stato (l’Olanda, per esempio), tali regole sarebbero state applicate anche tra Inghilterra (o Francia) e l’altro Stato (l’Olanda).

Il ritorno al proibizionismo

Dal 1870 il protezionismo riprese vigore. Analizziamone le ragioni:

  1. il raggiungimento di uno sviluppo considerevole spinse gli imprenditori a proteggersi dalla concorrenza straniera
  2. l’importazione del grano fu criticata dai grandi proprietari terrieri
  3. la sopraggiunta crisi economica
  4. l’affermarsi del nazionalismo e dell’imperialismo (e del “prestigio nazionale”)
  5. le imprese coloniali (ed i relativi scontri)
  6. l’effetto a catena (l’abbandono di alcune nazioni importanti portò ad una rincorsa al protezionismo, come in Germania sotto il Governo Bismarck. L’Italia fu tra i Paesi che seguirono questo trend)

Questa rincorsa al rialzo delle tariffe fu peculiare tra Francia e Italia (stabilizzata soltanto nel 1892 con le tariffe Méline).

L’unica nazione relativamente aperta restò la G.B. avvantaggiata dalla situazione congiunturale europea.

Il Colonialismo

Per la Francia il Settecento significò la perdita dei possedimenti oltreoceano a favore dell’Inghilterra, che ormai possedeva dalla Nigeria al Sud Africa, all’India, all’Australia al Canada. La Francia occupò Algeria, Tunisia, Marocco, Africa Equatoriale, Madagascar e Indocina, mentre l’interesse tedesco e belga era prevalentemente eurocentrico e declinava il dominio portoghese e spagnolo. Le colonie italiane in Eritrea, Somalia e Libia furono un insuccesso politico ed economico.

L’unico paese che aveva uno stretto legame con le colonie era l’Inghilterra che commise, tuttavia, l’errore di concentrarsi sui prodotti tipici della prima rivoluzione industriale, creando un fenomeno di immobilità produttiva.

L’economia internazionale

Nel 1914 la G.B. controllava ancora il 14% del commercio internazionale (lana, cacao, indaco, legno, grano, gomma etc.), ma era in forte decrescita. La percentuale di investimento del surplus all’estero vede il dominio inglese col 43%.

Stavano, però, prendendo piede gli Stati Uniti, sebbene il centro del Mondo fosse ancora l’Europa (l’80% delle esportazioni europee era comunque diretta all’interno del continente). Londra era il principale porto mondiale ed il principale mercato finanziario e borsistico (nacquero i brokers).

Le bilance dei pagamenti e il gold standard (vedi Eco. Pol. II).

La bilancia dei pagamenti è per definizione in pareggio. Lo squilibrio si colloca a livello di bilancia delle partite correnti (che è la somma di: 1. bilancia commerciale = X – Q. 2. partite divisibili, cioè dei redditi da investimenti nazionali all’estero ed il reddito da investimenti stranieri nel paese. 3. trasferimenti netti o rimesse. 4. bilancia degli interessi e dei dividendi). Se il saldo è positivo si dovrà ricorrere ad esportazioni di capitali, se è negativo a riserve o prestiti.

Sebbene la bilancia commerciale britannica fosse costantemente in deficit (gli emigrati trasferivano più di quanto facessero rientrare in patria), l’aumento continuo degli investimenti inglesi all’estero accrebbe il saldo delle partite correnti, delle entrate per dividendi e per interessi, fino a registrare una bilancia (totale) dei pagamenti positiva e permanente.

Questo fu uno dei principali elementi di forza della sterlina, in un sistema di gold standard, dove tutte le valute potevano essere convertite nel sistema aureo.

Precedentemente esistevano economie del monometallismo (oro, come in G.B.) e del bimetallismo (oro e argento: era un sistema più instabile, date le fluttuazioni di valore tra i due metalli; per contrastarle nacque in Francia l’Unione Monetaria Latina, che coinvolse parecchi Stati, ma fallì per la scoperta di nuovi giacimenti).

Nota: Il sistema aureo (sinonimo di gold standard) fu necessario poiché l’estensione delle pratiche bancarie aveva dissociato il valore nominale ed il valore reale della moneta: non si commerciava più con monete d’oro e d’argento ma con le banconote, che non avevano valore intrinseco.

Bisognava, quindi, che le banche si attrezzassero per disporre di riserve di metalli preziosi per garantire la convertibilità della carta-moneta ad una parità fissata. Poiché non vi era in ogni caso sufficiente oro per convertire tutte le monte, il sistema si reggeva sulla fiducia. In caso contrario, la corsa agli sportelli avrebbe provocato il collasso (vedi Eco. Pol.II).

I Paesi che non erano in grado di far fronte a tali regole di gioco erano costretti a lasciar fluttuare la valutazione della propria moneta al di fuori del sistema. Questo implica che, se il gold standard ha funzionato, era stato grazie ad un periodo (il XIX secolo) di estrema stabilità, soprattutto per quanto riguardava la sterlina (che ispirava una fiducia incondizionata).

Si pensi al cosiddetto potere liberatorio illimitato, ovvero la possibilità di convertire sterline in oro in qualsiasi momento.

Al contrario, certi Paesi, come la Germania dopo la guerra con l’Austria, furono costretti al corso forzoso, ovvero all’obbligatorietà di mantenere moneta cartacea.

Riassumendo: all’inizio l’oro eliminò l’argento, poi il gold standard eliminò l’oro, quindi la sterlina, associata al gold standard, divenne, di fatto, l’unità di conversione internazionale.