La finanza

La necessità del pubblico

Vi era sul finire del basso medioevo una distinzione abbastanza significativa fra la struttura della finanza pubblica del potere centrale rispetto a quello decentrato e locale.

Le fonti di entrata dei sovrani si basavano sull’imposizione fiscale, sul reddito dei domini della Corona, sull’eventuale alienazione di beni e privilegi e sull’indebitamento. Non molto diverse le fonti delle autorità locali.

L’imposizione fiscale della Corona trovava la sua maggiore consistenza nella forma indiretta, mentre a livello locale prevalevano le imposte dirette. La finanza straordinaria, spesso attivata nel corso del secolo per far fronte alle esigenze emergenti, soprattutto belliche, provocava una commistione nelle due forme di organizzazione.

Il procedimento in pratica prendeva avvio dalle richieste che la Corona inoltrava ai diversi corpi dello Stato a livello locale.

Il sovrano richiedeva quindi l’intervento dei sudditi attraverso forme generiche di compartecipazione agli oneri.

Era una contribuzione straordinaria che veniva onorata con fondi raccolti in sede locale, attingendo ai cespiti imponibili normalmente usati e concordati. Una chiara dimostrazione di questo processo si ritrova anche nell’aumentato interesse per i censimenti e le valutazioni delle proprietà, che incominciarono ad essere normate. I dazi ed i pedaggi di competenza sovrana aumentarono notevolmente per l’aumento dei traffici. Nell’Europa continentale le imposte indirette sui consumi continuarono a crescere e costituirono il nucleo centrale delle entrate degli Stati. Le entrate fiscali aumentarono notevolmente ma non sufficientemente, infatti gli Stati europei si ingegnarono nella ricerca di modalità di accelerazione degli incassi, ricorrendo all’intermediazione degli appaltatori per le riscossioni, in modo da usufruire di anticipi pur rinunciando ad una parte del gettito. Anche questi meccanismi non riuscirono a risolvere i diversi problemi di liquidità e nel ‘500 si può notare come il ricorso all’indebitamento si fosse diffuso in tutta Europa.

Il debito pubblico

La diffusione di diversi tipi di prestiti giunse a tali livelli da suscitare interventi del Pontefice per regolamentarne le forme.

Suddiviso nelle due forme tradizionali del redimibile e dell’irredimibile (estinguibile o non), il debito pubblico cinquecentesco ebbe modo di percorrere tutte le tipologie possibili (rendite perpetue, prestiti garantiti da cespiti fiscali etc.).

Si sviluppò un’innovazione che interessò i grandi banchieri, ma anche una miriade di risparmiatori che trovarono occasioni di investimento.

Proprio le crisi finanziarie di Asburgo, Francia e Portogallo, dichiarate nella metà del ‘500, provocarono un rimescolamento nelle capacità dei banchieri europei di resistere. Esse videro affermarsi il predominio dei banchieri genovesi, i quali avevano saputo porsi soprattutto come intermediari fra risparmiatori e finanze pubbliche.

Il livello del debito pubblico di alcuni Stati europei provocò anche casi di insolvenza e bancarotte. Di fronte all’impossibilità di pagare, i sovrani sospendevano la regolare gestione dei debiti e tendevano a modificarne gli impegni contrattuali. Sostanzialmente si trasformavano i termini di durata e le scadenze dei pagamenti, se non gli stessi tassi applicati. In questo modo prestiti a breve si trasformavano a lungo od anche in irredimibili. Anche nel caso di prestiti irredimibili, i sovrani si potevano riservare la clausola del riscatto, che si traduceva in pratica in una rinegoziazione dei tassi di interesse applicati.