Il XX secolo, tra rottura e prosperità

Il punto di partenza

Gli anni dal 1900 al 1914 erano quelli della Belle Epoque e dell’Inghilterra eduardiana. L’economia mondiale risultava globalizzata.

Il tratto dell’economia del principio del XX secolo è la convergenza dei redditi pro capite. Gli strati sociali più poveri del 1900 emigravano verso le Americhe. I poveri di oggi non hanno le stesse opportunità: non possono emigrare verso i Paesi dell’Unione Europea perché non è permesso loro di entrare.

La chiara leadership dei britannici semplificava il mondo e facilitava gli scambi. Il modello andò in rovina quando altri Paesi lo misero in discussione: la Germania, la Russia e gli Stati Uniti.

L’origine delle più importanti multinazionali, infatti, si può far risalire al principio del XX secolo.

Crescita e trasformazione dell’economia

La crescita secolare

Nel complesso, l’economia del mondo aumentò più di dodici volte. Il risultato della minore crescita europea è evidente.

Al contrario di quello che successo nel XIX secolo, quando l’Europa conquistò una posizione economica egemonica nel mondo, nel XX secolo si è assistito ad un decremento abbastanza continuo, che non sembra interrompersi.

Il fenomeno si spiega con l’evoluzione demografica con una crescita della popolazione europea alla metà del ritmo di quella mondiale ma l’aumento relativo del benessere pro capite europeo ha compensato parte del calo.

Durante il XX secolo il benessere degli europei si è accresciuto più che nell’insieme del mondo.

L’evoluzione demografica

Durante il secolo i Paesi europei sono cresciuti di circa 300 milioni di abitanti, qualcosa di più del 60%. I sette Paesi più popolati avevano l’88% della popolazione totale. Era l’epoca delle grandi potenze.

Nei “transwar years”, dal 1913 al 1950, la crescita demografica europea fu molto più lenta. Interessante il dinamismo scandinavo dovuto alla combinazione di un’elevata crescita e di politiche di sostegno alla natalità. L’eccezione è dell’Olanda che guida gli incrementi di popolazione.

Dopo il 1950 e fino al 1998, il ritmo globale di crescita aumenta come frutto dell’ottimismo del dopoguerra. Le eccezioni sono l’Ungheria e la Bulgaria.

In realtà, l’alta crescita della seconda metà del ‘900 è concentrata nel terzo quarto del secolo. Nell’ultimo decennio il comportamento demografico dell’Europa orientale è di stagnazione completa mentre l’Europa occidentale mostra una maggiore capacità di crescita.

I tassi di mortalità, specialmente quella infantile, declinarono fortemente e l’effetto più rilevante è stato quello di una speranza di vita alla nascita in costante aumento.

L’Europa fu, durante tutto il XIX secolo, un continente di emigrazione. Nel periodo tra le due guerre (gli “interwar years”) i Paesi dell’Europa occidentale cominciarono ad attrarre immigranti.

Le periferie mondiali ed orientali continuarono l’emigrazione verso l’America. Nel complesso, le perdite di popolazione dominavano ampiamente il panorama europeo.

Dopo la 2° guerra mondiale la capacità di attrazione di immigranti da parte dell’Europa occidentale ebbe un decollo. Venivano dal Sud e dall’Est dell’Europa e dalle ex colonie. Solo negli anni ’60 l’Europa si trasforma in un continente di immigrazione netta.

Il potenziale economico

Nel “The Rise and Fall of Big Powers”, Paul Kennedy spiegò la competizione tra le grandi potenze facendo ricorso allo sviluppo del loro PIL. Le sei maggiori potenze cumulavano l’85% circa del PIL.

Il PIL è il risultato della moltiplicazione della popolazione per il reddito pro capite. Nell’Europa del 1914 aveva importanza anche il PIL coloniale.

Le analisi più recenti di Maddison consentono di assegnare valori di reddito pro capite alle popolazioni delle colonie.

Il potenziale britannico è molto superiore a quello dei soli territori metropolitani ed il Regno Unito ora guida in modo incontrastato l’insieme delle grandi potenze europee. Anche l’Olanda cresce molto, senza superare l’Italia.

La situazione alla fine del secolo XX cambia, i grandi imperi coloniali sono spariti. In questo modo il Regno Unito e l’Italia stanno praticamente allo stesso livello.

Il reddito pro capite

Nel complesso, la prosperità europea crebbe moderatamente. Nel mezzo, quasi un quarto di secolo (la cosiddetta “golden age”), con una crescita quasi quattro volte superiore.

Verso il 1913 il Paese più ricco d’Europa era il Regno Unito. L’Italia superava i Paesi della periferia mediterranea, quelli dell’Europa centro – orientale e quelli scandinavi, con l’eccezione della Svezia. La Russia chiudeva la lista delle grandi potenze.

La situazione nel 1998 è più irregolare. La distanza tra il Regno Unito e il Portogallo nel 1998 era diminuita e prendendo il Paese occidentale più ricco, la Norvegia, la differenza risulta inferiore al rapporto di due a uno. Il nuovo divario è apparso in riferimento all’Est dell’Europa. Tra i Paesi occidentali le differenze sono contenute. Il caso più atipico fu quello dell’Irlanda ancorata alla Gran Bretagna, in una relazione poco produttiva.

Dopo il 1973 si possono distinguere due clubs. Nei Paesi occidentali, le forze propense alla convergenza riprendono ad agire, a vantaggio delle periferie. Questa volta l’Irlanda sarà la più beneficiata. Invece, i Paesi dell’Est affondano irrimediabilmente. Per loro c’è solo divergenza, e molta.

Società con alti livelli di consumi

Gli incrementi del reddito pro capite hanno permesso miglioramenti sostenuti dei livelli di consumo. In primo luogo, il consumo alimentare. Poi il vestiario che si è mantenuto abbastanza stabile percentualmente e dell’abitazione che è aumentato nettamente durante il secolo, in parte per il riscaldamento. I consumi che più sono cresciuti sono stati quelli legati alle spese di trasporto, per il tempo libero, la sanità e l’educazione.

La diffusione di massa dell’automobile è stato il grande processo di socializzazione tecnologica del secolo.

Nel periodo tra le due guerre, la Francia e la Gran Bretagna erano i Paesi più avanzati d’Europa. La maggiore prosperità della Gran Bretagna giustifica la sua leadership europea nell’impiego dei mezzi di trasporto su gomma, ruolo che si andrà perdendo durante la seconda metà del secolo. Verso il 1970 molti Paesi occidentali, guidati dalla Svezia, avevano superato il Regno Unito. Nel 1998, l’Italia è il Paese a più alta diffusione dell’automobile. In ogni caso, in tutta l’Europa l’automobile si trasformò nel bene di consumo durevole più desiderato.

Per quanto riguarda l’Europa occidentale, la diffusione degli apparecchi televisivi ha caratteristiche simili a quella delle automobili. Ed anche più accentuate, per il fatto che la Gran Bretagna era il Paese in cui è stata inventata la televisione.

Nel 1950 il Regno Unito era l’unico Paese europeo dotato di televisione, egemonia ancora più chiara nel 1955.

La nuova invenzione non era arrivata nelle periferie europee (Spagna…). I Paesi dell’Est s’impegnarono in una corsa frenetica, identica a quella dei Paesi dell’Ovest, per diffondere la televisione. Innovazione molto utile per i regimi dittatoriali.

Nel 1960, solo Svezia e Danimarca riuscirono ad emulare il successo britannico del 1955. Nel 1965 la RDT disponeva di tanti apparecchi per abitanti, quanti ne aveva la RFT e la Cecoslovacchia superava i suoi ricchi vicini occidentali, per non parlare dei suoi soci del COMECON (eccetto la RDT). Il leader nella diffusione nei Paesi dell’Est è la Lettonia.

Paragonare la diffusione degli apparecchi televisivi ai PC ha molto senso difatti le nuove tecnologie dell’informazione hanno una componente di inerzia culturale molto elevata. I Paesi leader sono quelli scandinavi. Nei climi freddi del Nord e in quei Paesi con un sostrato educativo molto forte, le nuove tecnologie dell’informazione (NTI) si sono diffuse a gran velocità. Tuttavia, è la Svizzera che guida la graduatoria; sorprende l’elevata posizione dell’Irlanda, che si è convertita in sede delle grandi multinazionali dell’informatica.

I Paesi che ne soffrono coincidono con quelli che mostrano enormi problemi di crescita: l’area balcanica e gran parte dell’ex Unione Sovietica (eccetto i Paesi baltici).

Il ruolo propulsore del progresso tecnologico

Nel quarto di secolo anteriore all’esplosione della guerra, si era assistito all’ascesa di nuove tecnologie: l’elettricità, il motore a combustione interna e la chimica industriale. Nel campo delle comunicazioni la telegrafia non era arrivata nelle periferie europee (Spagna a ancora più chiara nel 1955). Era stata inventata la televisione, si era arricchita con la telefonia.

Dopo la guerra il cambiamento tecnologico frenò. L’elettrificazione e la diffusione di massa dell’automobile furono i due fenomeni tecnologici più rilevanti del periodo tra le due guerre.

Il fatto più significativo dell’epoca fu la diffusione dell’uso dell’elettricità nell’industria, nei trasporti, nei servizi e nella vita domestica. La diffusione di massa dell’automobile era già in corso nell’Europa del 1914.

Tuttavia, le grandi innovazioni giunsero dagli Stati Uniti come la “Ford T” che rappresentò la concretizzazione del nuovo modello automobilistico ed inondò l’Europa del dopoguerra.

La chimica ottenne grandi successi nelle applicazioni rivolte alla realizzazione di nuove fibre artificiali e, poi, sintetiche. Penetrò anche nella chimica fine che si sarebbe trasformata nell’industria farmaceutica.

La radio rivoluzionò le comunicazioni di massa e la propaganda politica, oltre a ridurre i costi di comunicazione e, soprattutto, quelli d’intrattenimento. Finita la seconda guerra mondiale si sviluppò l’aviazione e la missilistica. Si scoprirono le applicazioni dei raggi laser, la plastica, l’energia atomica.

Il gap o distanza tecnologica tra l’Europa e gli Stati Uniti era cresciuto molto.

L’applicazione sistematica della catena di montaggio (il “fordismo”) fu il nucleo tecnologico organizzativo che l’Europa importò dagli Stati Uniti. Questo sistema dominò la ricostruzione europea e tutta la golden age.

Nell’industria automobilistica, chimica e delle costruzioni meccaniche, le imprese europee, con tecnologia europea, cominciarono a penetrare sui mercati internazionali. La diffusione di massa dell’automobile fu il fenomeno dominante.

Andò così fino al 1973, quando la crisi del petrolio distrusse le basi energetiche del modello. Un’energia cara significava il ridimensionamento del sistema fordista.

Negli anni ’80 i personal computer cominciarono ad apparire come beni capaci di generare una domanda quasi inesauribile. Già nella decade degli anni ’90 l’interconnessione dei personal computer diede inizio alla rivoluzione di Internet. Dietro il dinamismo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (le ICT) si nasconde la biotecnologia.

Le elevate dotazioni di capitale fisico sommate alle sempre più alte dotazioni di capitale umano, fanno, di quelle europee, economie ad alta intensità di capitale.

La fabbricazione degli strumenti, o dei prodotti che sfruttano le nuove tecnologie, ha incoraggiato la formazione di imprese di grandi dimensioni dedicate specificamente a questo scopo.

La parte più consistente del capitale fisico viene denominata “capitale non residenziale”. La proporzione del capitale propriamente produttivo rispetto al PIL indica il grado d’intensità “capitalista” dell’economia.

Agli inizi del XX secolo, la Gran Bretagna aveva visto aumentare le sue necessità di “capitale non residenziale” per unità di PIL, ma moderatamente. Il rapporto aumenterà dopo la 2° guerra mondiale. Gli altri Paesi europei costituivano, verso il 1950, economie a molto più alta intensità di capitale rispetto a quella britannica.

Attualmente il capitale fisico “non residenziale” rappresenta approssimativamente il doppio del PIL dei Paesi europei avanzati. La crescente complessità scientifica e tecnologica ha richiesto un forte investimento di capitale umano.

Un modo ampiamente accettato di avvicinarsi alla definizione di questo concetto sfuggente è il numero medio di anni di scolarizzazione in ogni Paese.

Il cambiamento strutturale: la decadenza dell’agricoltura

Il settore terziario sostituisce l’agricoltura e l’industria, e, alla fine del XX secolo, si sarà trasformato nel settore dominante quasi dappertutto. Il tratto dominante del secolo è la caduta della popolazione attiva occupata nell’agricoltura.

Verso il 1910 potevano distinguersi quattro Europe. In primo luogo la Gran Bretagna che contava solo un 9% di agricoltori; a grande distanza veniva un blocco di Paesi tra cui il Belgio e la Francia che avevano spostato la loro manodopera dall’agricoltura all’industria. Seguiva la gran parte dell’Europa centro–occidentale. Ad un gradino inferiore, tra il 49 ed il 58% vengono la Svezia, la Grecia, l’Irlanda, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Ungheria. L’ultimo blocco corrisponde ai Paesi che rimanevano quasi esclusivamente agrari come la Romania.

Nel 1950 la tendenza generale era, evidentemente, alla riduzione. Verso il 1980 la graduatoria non è molto diversa, ma le proporzioni sono verso il basso, con diminuzioni che di solito stanno nell’ordine di venti punti percentuali.

Nel complesso, il blocco dell’Est ha seguito lo schema di contrazione dell’agricoltura dell’insieme dell’Europa.

L’evoluzione fino al 1998 è perfettamente prevedibile nei Paesi europei occidentali: sempre meno agricoltori nell’insieme della popolazione attiva. C’è un’eccezione notevole, la Romania che è seguita dalla Bulgaria…

Vi sono indizi per sospettare che verso l’ex URSS si sia prodotto un vero “ritorno all’agricoltura”, per effetto delle grandi difficoltà di sopravvivenza.

La prima guerra mondiale comportò una grande scarsità di alimenti e fame per milioni di persone. Dalla fine della guerra la produzione si risollevò. La seconda guerra mondiale tornò a mandare a fondo la produzione agraria.

I prodotti non parteciparono ai “rounds” della liberalizzazione. Nessuno tentò seriamente di ridimensionare la produzione agraria e l’occupazione agraria della popolazione.

Attualmente, il settore agrario è come qualunque altro settore ma, nell’Unione Europea, è quella che riceve più sovvenzioni attraverso i fondi previsti dalla politica agricola comunitaria e maggiore protezione doganale di fronte al resto del mondo. Ha un potere di negoziazione incomparabilmente superiore a quello di qualunque altro settore.

Il cambiamento strutturale: industrializzazione e deindustrializzazione

Il XX secolo è stato dominato dalle politiche di industrializzazione. Il prodotto industriale è cresciuto moltissimo, ma ha sofferto le ondate delle due guerre mondiali, della depressione degli anni Trenta e, a partire dal 1975, della crisi industriale più profonda del secolo, che è culminata nel processo di “deindustrializzazione”.

Nel 1960 la tendenza era di una crescita netta della proporzione di popolazione attiva dedita all’industria.

Occorre mettere in evidenza il declino della Gran Bretagna, che è l’unico Paese europeo a procedere verso una deindustrializzazione.

Il risultato è che si è completata la creazione di un’area intensamente industriale nel cuore dell’Europa, con percentuali di popolazione dedita all’industria che si avvicinano al 50%.

L’esperienza della Gran Bretagna, che aveva raggiunto il suo “tetto” industriale, nel 1911, con un 52%, risulterà irripetibile. Il Belgio raggiungerà il suo massimo verso il 1947. Tutti gli altri Paesi tra il 1960 e il 1980.

Nel 1980 i Paesi dell’Est sono molto meglio piazzati ed i Paesi dell’Europa centrale costituiscono il nucleo industriale dell’Europa. La Gran Bretagna e il Belgio si trovano ben lontani dalla testa. I Paesi scandinavi sono in basso alla graduatoria. La Grecia torna a mostrarsi in grande ritardo;gli altri Paesi balcanici si sono caricati di un vero e proprio furore per l’industrializzazione, tra il 1960 ed il 1980. Tra i Paesi dell’area capitalista, solo l’Irlanda condivide l’intensità di tale esperienza. I Paesi dell’area d’influenza sovietica, verso il 1988 – 1989, staranno ormai per conquistare i primi posti in termini di specializzazione industriale.

Sottoposte allo shock del transito accelerato da economie autarchiche e pianificate ad economie aperte e di mercato, le specializzazioni industriali si sgretoleranno. I crolli di più di 15 punti, in 9 anni, indicano una vera e propria rivoluzione.

La composizione interindustriale: dal tessile all’elettronica

La suddivisione più frequente dell’attività industriale manifatturiera è in 6 settori: alimentazione, bevande e tabacco; tessili e confezioni; produzione di metalli; lavorazione di prodotti metallici; chimica ed altri settori.

Fino al 1975 il settore in maggiore regresso relativo è stato il tessile, seguito dall’alimentazione e, in ultimo, dalla produzione di metalli. Al contrario, la lavorazione di prodotti metallici e la chimica sono state in piena espansione.

I Paesi industriali emergenti tendono a specializzarsi nei settori manifatturieri più maturi dove la nuova tecnologia ha scarso impatto.

I Paesi più avanzati tendono a collocarsi nei settori più progrediti dove la componente del capitale umano è cruciale.

I Paesi con dotazioni più equilibrate puntano su tecnologie intermedie e su settori ad elevata intensità di capitale fisico.

I Paesi ad industrializzazione forzata, dopo la 2° guerra mondiale, privilegiano i settori a tecnologia più avanzata, di modo che, verso il 1973, c’erano poche differenze all’interno dell’industria dell’Europa occidentale e di quella orientale.

Nei Paesi dell’Europa occidentale e meridionale il settore ad alta intensità di lavoro poco qualificato è in declino; viceversa, il settore che ha maggiori esigenze di capitale fisico e di lavoro qualificato continua a crescere nell’Ovest ma sta soffrendo contrazioni notevoli nell’Est.

L’auge della grande impresa industriale

Sebbene il protagonismo nordamericano fosse indiscutibile è evidente il fatto che il Regno Unito e la Germania avessero quasi lo stesso numero di colossi industriali e che gli altri Paesi dotati di grandi imprese fossero, oltre alla Francia, la Russia, il Belgio ed il Lussemburgo.

Tra le britanniche c’erano un paio di imprese tessili (inclusa la maggiore multinazionale tessile del mondo, la Coats), un paio di tabacco, una di birra (la Guinness), un’alimentare (la Lever), due di miniere non ferrose, tre di industria pesante, una di chimica ed una petrolifera.

Le grandi imprese tedesche erano concentrate in 4 settori: 7 nella siderurgia e nell’industria pesante, 3 nella chimica, 2 nel minerario del carbone e 2 in quello del materiale elettrico (Siemens).

Tra quelli francesi, le compagnie minerarie dominavano. La nazionalizzazione del 1945 le annientò tutte. Nel caso di quelli russi furono tutti nazionalizzati con la rivoluzione del 1917.

Malgrado le nuove tecnologie è predominante il peso della prima industrializzazione come quelle tessili…

Solo le imprese tedesche produttrici di materiale elettrico, AEG e Siemens, venivano associate alle nuove tecnologie.

Verso il 1937 sorgono grandi imprese chimiche e petrolifere mentre scompaiono le tessili e siderurgiche e le minerarie.

Nel 1958 l’insieme dei colossi imprenditoriali legati all’automobilistico è già dominante.

La chimica ed il materiale elettrico completano la terna delle imprese dotate di nuove tecnologie. Verso il 1973 entrano in scena le imprese farmaceutiche. Venticinque anni dopo esse si sono moltiplicate e costituiscono la forza tecnologica ed industriale dell’Europa. Brillano per la loro assenza le imprese del settore informatico mentre vi sono grandi imprese per le telecomunicazioni.

Solo quelli che sono riusciti a sviluppare le nuove tecnologie si sono adattati alle nuove condizioni del mercato mondiale.

La diversificazione dei servizi

La legge di Clark, secondo la quale alla crescita dell’industria sarebbe seguita quella dei servizi, si è attuata con una precisione straordinaria. Il processo ha avuto varie fasi:

  • La prima fu costituita dallo sviluppo dei servizi moderni per il XIX secolo: l’auge dell’impresa moderna e l’apertura di nuovi tipi di lavoro per le donne, completò lo scenario di crescita del settore dei servizi tra il 1913 ed il 1950;
  • La seconda con la crescita dello Stato del Benessere (Welfare);
  • La terza fase ha origine nella decade del 1980 quando comincia la rivoluzione informatica ed esplode nel decennio seguente, quando l’informatica si combina con le telecomunicazioni.

I Paesi con reddito pro capite più elevato sono andati più avanti nel cammino della terziarizzazione.

I dati del 1998 fanno notare come sia molto interessante che la prima impresa di servizi europea non fosse altro che l’ottava, se la classificassimo insieme con quelle industriali.

Le attuali imprese di telecomunicazione hanno sostituito le antiche grandi imprese di trasporto. Sono i grandi Paesi europei ad avere grandi imprese di telecomunicazione. La presenza dell’Italia è eccezionale. Lle imprese tedesche occupano un posto molto avvantaggiato tra quelle di servizi, ma non le francesi. Alcuni piccoli Paesi, che eccellono nel campo dell’industria, come la Svezia, non ottengono successi equivalenti nel campo dei servizi.