La disciplina dei prezzi di trasferimento infra – gruppo

Le disposizioni sui transfert-price sono dirette alla determinazione dei valori da attribuirsi a beni o servizi oggetto di transazioni residenti in Stati diversi, qualora le stesse siano legate da rapporti di collegamento o controllo.

L’individuazione delle fonti. Nell’ordinamento tributario italiano, la principale fonte normativa in materia di prezzi di trasferimento è costituita dall’articolo 110 comma 7 del TUIR, che prevede la rideterminazione delle operazioni infra-gruppo, in base al valore normale. Più precisamente, tale disposizione prevede: “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa o ne sono controllate sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinando a norma del 2° comma se ne deriva un aumento del reddito. La stessa si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità degli Stati esteri, a seguito delle procedure contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente si applica anche per i beni ceduti e servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato, per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o lavorazione di prodotti”.

Ambito soggettivo

  • I soggetti passivi della norma sui trasferimenti infra-gruppo: sono le imprese residenti. L’utilizzo dell’espressione “impresa” comporta l’estensione a tutti i soggetti, persone fisiche e non, che esercitino un’attività al fine della produzione e scambio di beni e servizi (comprese stabili, secondo articolo 110 comma 7 TUIR), secondo l’articolo 2082 codice civile. L’interpretazione estensiva del termine “impresa” sembra condivisibile. Infatti, un’interpretazione restrittiva che comprenda solo società di capitali sottrarrebbe una notevole quantità di transazioni, incentivando l’utilizzo di alcune forme imprenditoriali a scapito di altre, facendo venir meno il criterio di neutralità fiscale.
  • L’individuazione dei soggetti collegati alle imprese italiane: il 2° requisito soggettivo è l’individuazione del soggetto non residente collegato con l’impresa italiana. L’articolo 110 comma 7 parla di “società non residenti, includendo anche forme giuridiche non espressamente previste dal nostro ordinamento. Parte della dottrina ritiene che il termine non possa essere utilizzato per i soggetti che non hanno una forma societaria. Occorre, infine, sottolineare che la norma va applicata anche con riferimento ad operazioni effettuate con stabili organizzazioni di società estere. Sul punto la circolare ministeriale precisa chenonostante nei vari Paesi venga generalmente riconosciuta autonomia fiscale della stabile organizzazione, ai fini dell’applicazione delle norma in esame, occorre risalire all’effetto soggettivo controllante, non a quello apparente, laddove l’elemento determinante su cui è fondata l’autonomia fiscale è costituito esclusivamente dalla localizzazione territoriale dell’attività esercitata”.

I rapporti tra la società italiana e la società estera. È necessario che l’impresa italiana e la società estera siano tra loro legate tra rapporti di controllo. La norma individua 3 differenti fattispecie costituite dal: controllo diretto, indiretto e l’ipotesi in cui una stessa società controlli entrambi i soggetti. L’articolo 110 comma 7, nell’individuare l’ultima fattispecie, richiede che il soggetto controllante rivesta la forma societaria. Sembravano escluse le ipotesi in cui l’impresa italiana e quella estera sono controllate da una medesima persona fisica. Per ovviare a questo problema, il legislatore tributario (circolare numero 2267 del ’80) ha delineato che il controllo comprende ogni forma di influenza economica attuale o potenziale desumibile da:

    1. vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall’altra impresa (“mono committenza”);
    2. impossibilità di funzionamento dell’impresa senza capitale e cooperazione dell’altra impresa (joint venture);
    3. diritto di nomina del CDA o degli organi direttivi;
    4. membri comuni del CDA;
    5. relazioni di famiglia tra le parti;
    6. concessione di ingenti crediti o prevalente dipendenza finanziaria;
    7. partecipazione delle imprese a centrali di approvvigionamento o vendita;
    8. partecipazione delle imprese a cartelli o consorzi;
    9. controllo di approvvigionamento o di sbocco;
    10. serie di contratti che modellino una situazione monopolistica;
    11. tutte le ipotesi in cui venga esercitata potenzialmente un’influenza sulle decisioni imprenditoriali.

Più elementi (dell’elenco) riuniti tra loro possono costituire prova dell’esistenza del nesso di dipendenza.

Ambito oggettivo. L’articolo 110 comma 7 precisa che la rivalutazione a valore normale dei componenti reddituali ha luogo solo se da tale operazione deriva un aumento del reddito. Occorre sottolineare che la limitazione della norma aveva, prima della modifica dell’articolo 110 comma 7 ad opera del d.p.r. numero 42 dell’88, creato problemi sul piano del diritto internazionale. Non è infrequente che le disposizioni in materia di prezzi di trasferimento volte alla sostituzione dei valori pattuiti tra le parti con quelli di mercato creino una doppia imposizione degli stessi. Es.: un’impresa italiana effettua transazioni con una società controllata non residente, l’amministrazione finanziaria straniera procede a una rettifica di utili in aumento di una società ivi residente, la limitazione contenuta nell’articolo 110 comma 7 non consente all’impresa italiana di rettificare a valore normale le proprie componenti reddituali in modo da evitare la doppia imposizione. Per ovviare a tale problema, il legislatore è intervenuto per estendere l’applicabilità della norma sulla rivalutazione a valore normale anche ai casi in cui ne deriva una diminuzione del reddito, quando essa sia prevista dalle speciali procedure amichevoli (articolo 25 OCSE) previste dalle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.

Determinazione del valore normale. Il comma 7 dell’articolo 110 TUIR dispone che: “per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi, quando non è diversamente disposto, si applicano le disposizioni dell’articolo 9”. Si intende per valore normale il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione. Secondo la norma, quindi, il valore normale è il valore di mercato che sarebbe praticato se i beni o servizi fossero scambiati tra soggetti indipendenti.

Il prezzo di trasferimento infra-gruppo determinato secondo le direttive OCSE. Il principio di libera concorrenza (“arm’s lenght principle”, letteralmente: “principio della lunghezza delle braccia”) è il principio fondamentale recepito dai rapporti OCSE. I tratti essenziali possono essere così individuati:

  • analisi per singola operazione (“transactional analysis”): il prezzo di trasferimento deve essere determinato con riferimento a una singola operazione;
  • la comparazione: l’operazione tra le imprese associate deve essere comparata con altra operazione avente caratteristiche similari o identiche;
  • il prezzo concorrenziale deve tener conto degli effetti civilistici scaturiti dal contratto tra imprese associate;
  • condizioni di mercato;
  • l’aspetto soggettivo: il valore normale deve riflettere le circostanze soggettive che caratterizzano l’operazione;
  • l’analisi funzionale.

Determinazione del prezzo di trasferimento (transactional methods). I metodi tradizionali si basano sul valore normale della singola operazione conclusa tra imprese associate. Essi sono essenzialmente 3:

  1. metodo del confronto del prezzo: esso consente una diretta comparazione con i prezzi praticati da imprese indipendenti e riflette le condizioni del mercato (situazione di libera concorrenza).

Questo metodo ha una serie di difficoltà qui elencate:

  1. difetto di similarità o identità del bene oggetto di cessione (non si trova un’operazione simile);
  2. difetto di comparabilità del mercato;
  3. difformità dei volumi e delle condizioni di vendita;
  4. difformità dei beni immateriali ceduti insieme ai prodotti (es.: marchi apposti sui prodotti).

Queste difficoltà pongono l’interrogativo se la comparazione non debba piuttosto essere effettuata con un’operazione similare e non identica.

2) Il metodo del prezzo di rivendita: si intende il prezzo al quale il bene acquistato da un’impresa associata è rivenduto a terzi indipendenti. È ammessa la determinazione del margine di utile lordo facendo riferimento al margine realizzato da un’impresa indipendente esercente attività similari in condizioni analoghe. La comparazione necessaria per l’applicazione del metodo del prezzo di rivendita è meno rigorosa rispetto all’applicazione del confronto di prezzo. Ciò in quanto le differenze qualitative dei beni oggetto di rivendita incidono in misura rilevante sul prezzo finale, ma solo in misura marginale sull’utile lordo realizzato dal rivenditore. Infine, per la comparazione con il margine di utile lordo realizzato da imprese indipendenti, si deve procedere ad una omogeneizzazione dei fattori di determinazione, al fine di assicurare che gli stessi costi siano inclusi (esempio: costi di ricerca e sviluppo). Le difficoltà di applicazione sono:

  1. il criterio è difficilmente utilizzabile dove il rivenditore associato svolge funzioni significative in termini di valore aggiunto o di modifiche strutturali;
  2. l’intervallo tra acquisto e rivendita va considerato ai fini della valorizzazione del margine (breve intervallo: il margine sarà più attendibile e facilmente comparabile);
  3. le funzioni e i rischi assunti dal rivenditore associato costituiscono la base di determinazione del margine di utile lordo;

3) Il metodo del costo maggiorato: viene definito da un glossario/rapporto del 1995 come: “metodo per la determinazione del prezzo di trasferimento che utilizza i costi sostenuti dal fornitore di beni in una transazione tra imprese associate. Un’appropriata percentuale di ricarico (mark-up) relativa al costo di produzione viene aggiunta così da ottenere un utile adeguato alla luce delle funzioni svolte e delle condizioni di mercato. Ciò che si ottiene può essere considerato come prezzo di libera concorrenza tra più imprese associate”. La rilevazione del costo medio può essere utile per la determinazione del costo degli impianti quando questi sono impiegati su più linee di prodotto, per evitare un’eccessiva enfasi sui costi storici. Il rapporto esamina il problema dell’allocazione dei costi: l’individuazione dei soli costi sostenuti dal produttore (“cost-plus-method”) con esclusioni di voci di spesa non imputabili alla fabbricazione delle merci oggetto di cessione dell’impresa associata. Questa limitazione può creare problemi di ripartizione di costi tra fornitore ed acquirente. L’analisi del rapporto trascura svariati problemi:

  1. la quantificazione dei costi può esser resa difficile dall’applicazione di sistemi contabili diversi;
  2. vi è incertezza sul calcolo del margine di utile lordo (non è chiaro se debba essere funzione del costo o del ricavo);
  3. la determinazione dei costi indiretti può essere difficile in presenza di oneri pluriennali o di spese generali.

I metodi alternativi. Si utilizzano nei casi in cui non risulta applicabile nessuno dei metodi tradizionali. Tali metodi vengono chiamati “profit-based-method”. Esaminano gli utili derivanti da determinate transazioni controllate di una o più imprese associate che partecipano a quell’operazione. Ripartiscono i profitti delle vendite senza tener conto delle variabili di mercato (per questo risentendo di arbitrarietà). Tali metodi si contrappongono ai metodi basati sul prezzo di cessione di beni o servizi tra le imprese associate (“transactional method”). La differenza tra i 2 metodi è evidente: nei primi si procede a una ripartizione dell’utile, mentre nei secondi si procede ad un’individuazione del prezzo congruo. Secondo il rapporto OCSE 1995 gerarchicamente viene preferito il 2° in quanto i metodi basati sull’utile devono essere utilizzati quando le informazioni a disposizione del contribuente non sono sufficienti per determinare con affidabilità il prezzo di trasferimento.

Il metodo di ripartizione dell’utile. Il rapporto OCSE identifica l’utile complessivo da ripartire tra imprese associate, derivante da una transazione controllata, e ripartisce questo utile tra le imprese associate, secondo il principio di libera concorrenza. Per quanto riguarda la compatibilità con il metodo arm’s lenght standard, essa è realizzata solo quando il criterio della ripartizione dell’utile è stato utilizzato in concreto da imprese indipendenti. Da qui scaturisce il rapporto negativo dell’OCSE, supportato anche dal fatto che la determinazione di costi e utili realizzati da ciascuna delle imprese associate è assai difficoltosa.

Criteri applicativi. Nella maggior parte dei casi l’utile oggetto di ripartizione è l’utile “sperato”/stimato ragionevolmente. La ripartizione dell’utile è ricondotta a 2 differenti metodologie:

1) contribution analysis: l’utile complessivamente conseguito è ripartito tra le imprese sulla base del valore delle funzioni esercitate da ciascuna impresa associata. Il valore di ciascuna funzione è determinato in modo diretto o viene calcolato sulla base di una stima del valore di mercato (si ripartisce sull’utile operativo). L’applicazione concreta può essere effettuata:

  1. in via preliminare, sono individuati tutti i rischi e le funzioni esercitate dalle imprese associate nell’operazione di verifica;
  2. successivamente, si procede a una valorizzazione delle singole funzioni attribuendo a ciascuna di esse  un valore percentuale rispetto all’utile complessivo da ripartire.

2) residual analysis: ripartisce l’utile complessivo in 2 fasi:

  1. nella prima, a ciascuna impresa è attribuita una quota di utile che consenta la realizzazione di un utile netto pari o simile all’utile conseguito da un’impresa indipendente,
  2. successivamente, le imprese procedono alla ripartizione dell’utile c.d. residuale (cioè l’utile complessivo – le quote di utile attribuite alle 2 imprese).