I licenziamenti

Facciamo un cenno alle ragioni per le quali è così importante tale disciplina. L’effettività delle tutele sinora analizzate, è re-indirizzabile in buona parte alla stabilità del rapporto di lavoro. L’ordinamento, almeno a partire dalla metà degli anni ’60, si è preoccupato di limitare il potere di licenziamento del datore. In quel periodo è stata approvata la prima legge (la n° 604) sui licenziamenti.

Prima di essa in quale situazione ci trovavamo? La disciplina era contemplata agli artt. 2118 e 2119 c.c. Queste due disposizioni hanno a loro volta due precedenti storici, rinvenibili nel:

  • Codice del 1865, per cui nessun soggetto poteva essere costretto ad un vincolo perpetuo.
  • R.D.L n° 1825 del 1924, che conteneva la prima disciplina legislativa in materia di impiego privato.

In tale legge, come nel c.c., non si trovano riferimenti sul licenziamento, bensì una disciplina sul “recesso dal contratto”, ovverosia regole per entrambe le parti, sugli stessi principi: sia per datore sia per lavoratore. Le concezioni della legge del ’24 troveranno una generalizzazione nel codice civile del 42. Nel 1924 veniva riconosciuto un primo limite, poi mantenuto sino ai nostri tempi: l’art. 9 prevedeva una “previa didsdetta” (o preavviso) e un’indennità per il recesso, tranne nel caso in cui una delle due parti presentasse giusta causa alla risoluzione immediata, cioè per causa grave.

Che importanza rivestono il preavviso e la giusta causa? Innanzitutto se c’è giusta causa non c’è obbligo di preavviso. Quest’ultimo è finalizzato sia alla possibilità del prestatore di lavoro di reperire altra occupazione sia a quella del datore di trovare un sostituto. L’obbligo di preavviso concerne oggi tutti i licenziamenti che non siano per giusta causa. Nel 2119 c.c. si disciplina il recesso dal contratto a tempo determinato (normalmente le parti sono vincolate fino alla scadenza del termine). Citeremo successivamente quest’articolo. Più importante è il successivo: L’art. 2118 c.c. disciplina, invece, il recesso dal contratto a tempo indeterminato.

Citazione: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”.

Ad oggi le funzioni un tempo svolte dalle norme corporative sono previste, nella prassi, dai contratti collettivi. Se manca il preavviso del licenziamento? Il datore di lavoro deve corrispondere la retribuzione relativa al periodo in cui il lavoratore non ha lavorato, dal momento del licenziamento sino ai 3 mesi successivi. Ma se è il lavoratore a licenziarsi? Sarà il prestatore stesso a corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso. Resta, tuttavia, una questione di fondo più seria, nel caso in cui il rapporto si risolva, ma prosegua di fatto sino ai 3 mesi successivi: si parla di “efficacia reale”del preavviso. Essa è molto importante: se il rapporto continua, “continuano anche i suoi effetti”.

Ad esempio: se viene modificato un contratto collettivo, si applicheranno le nuove norme come se il prestatore di lavoro operasse ancora nell’impresa. Altro esempio: se il lavoratore si ammala durante il periodo di preavviso, il periodo di preavviso si allunga. Questo secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente. Chiusa la parentesi sul preavviso, colleghiamoci all’art. 2119. Citazione: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda.”. Il legislatore, pure ponendo sullo stesso piano lavoratore e datore, considera il caso delle dimissioni (cioè il recesso del lavoratore).

Il datore è tenuto a corrispondere la retribuzione per il periodo di preavviso: sostanzialmente, nel caso di dimissioni per giusta causa, la responsabilità viene “accollata” al datore di lavoro. La giusta causa è l’unica ipotesi in cui si può recedere “ante tempus” (cioè prima della scadenza). Confrontiamo l’art. 2119 con l’art. 9 del 1924. Questo ci servirà anche per un confronto con nozioni successive. Nella legge del ’24 si fa riferimento ad “una mancanza così grave che non consenta la prosecuzione del lavoro”. Nell’art. 2119 si fa riferimento ad “una causa” così grave(…).

Che differenza fa? La giusta causa è “più ampia”. Vediamo la posizione del prestatore che decide di dare le dimissioni. Si fa riferimento proprio agli artt. 2118 e 2119 c.c., che al riguardo, non hanno subito modifiche. Non è richiesta la forma scritta, in generale. Un caso particolare che incontreremo è quello che riguarda le “dimissioni in bianco”: fatte firmare dal lavoratore durante il periodo di prova o prima dell’effettiva cessazione del rapporto di lavoro.

È evidente che si tratti di una pratica scorretta, ma come si qualifica e si sanziona? La giurisprudenza ha definito le “dimissioni in bianco” come “affette da nullità assoluta per mancanza di causa”: manca l’effettiva volontà del lavoratore di porre fine al rapporto di lavoro. Analizziamo la causa. Innanzitutto essa deve essere grave. Vediamo degli esempi, previsti dalla giurisprudenza:

  • “Inadempimento contrattuale
  • o tutti i fatti idonei a determinare l’immediata impossibilità di mantenere in vita il rapporto”

Nel caso del datore di lavoro, gravano, ad esempio, gli obblighi di:

  • Retribuzione
  • Sicurezza sul lavoro etc.

Ipotesi di giusta causa di dimissioni si trovano nei contratti collettivi, per esempio, per i dirigenti nel caso di trasferimenti d’azienda, cambiamenti di datori di lavoro etc. Ma il caso più classico è il seguente: le dimissioni di massa, presentate da un certo numero di giornalisti alla vecchia direzione de “Il giornale”, a seguito del mutamento dell’indirizzo ideologico e politico del quotidiano (che prima era diretto da Montanelli).

I giornalisti chiesero che venisse loro versata la retribuzione relativa al periodo di preavviso, e la ottennero. Tali dimissioni erano state giudicate, infatti, “per giusta causa”. La Corte, quindi, analizza il nesso tra causa e dimissioni. Vediamo la disciplina successiva: la legge 604 del ’66. Per la prima volta viene introdotta una limitazione alla possibilità di recedere di una sola delle due parti: il datore di lavoro. Già negli anni ’50 erano stati firmati una serie di accordi interfederali che riguardavano la disciplina dei licenziamenti, sia individuali, sia collettivi. L’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali fu trasposto nella legge 604 del ’66.

Diversa sorte ebbe invece l’accordo interconfederale sui licenziamenti collettivi, tant’è che l’Italia fu condannata per non aver dato attuazione alla direttiva in merito. Secondo il principio della giustificazione del licenziamento, il datore può licenziare solo in presenza di una giustificazione, come risulta dall’art. 1 della legge 604: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di Contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo.”.

Art. 5: “grava sul datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.”. Tale articolo è rimasto immutato fino ad oggi. Vi è una quasi inversione dell’onere della prova rispetto a quanto accadeva prima. Citiamo l’art. 3: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.”. Una prima ipotesi è quella del “Notevole inadempimento”: è il “motivo soggettivo”, che riguarda il lavoratore. Una seconda ipotesi è detta “Giustificato motivo oggettivo”, cioè inerente all’impresa. L’art. 4 prevede il divieto di licenziamento discriminatorio e troverà evoluzione con la legge 108 del ’90, oggi in vigore.

Facciamo un cenno all’art. 6: esso stabilisce un termine (60 gg.) entro il quale deve essere impugnato il licenziamento. Sebbene questi principi siano ancora vigenti, occorre dire che la legge 604 non era di generale applicazione. Nota bene: Un primo campo di applicazione era previsto per i datori di lavoro con più di 35 dipendenti (oggi 15). Tutti i lavoratori occupati in altri tipi d’imprese non fruivano di tali diritti ma restavano regolati dagli artt. 2118 e 2119 c.c.
Nota bene: La legge 604 del ’66 introdusse la “tutela/stabilità obbligatoria”, espressa nell’art. 8 (oggi modificato per aspetti marginali): “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità…”.

A seguito dell’ingiustificato licenziamento secondo l’art. 8 della legge 604 del ‘66, si ha quindi:

  • La riassunzione
  • O, in alternativa, un’indennità.

Questa è considerata, tuttavia, una tutela debole, perché non garantisce il mantenimento del posto di lavoro: si può riassumere, ma riassumere cosa implica? Che si ha in ogni caso la risoluzione del contratto di lavoro, non solo di fatto ma di diritto. È un’ipotesi particolare, in cui un atto illegittimo produce comunque i suoi effetti. Solo con lo Statuto dei lavoratori, 4 anni dopo, con l’art. 18, oggi tanto discusso, si avrà diritto alla reintegrazione e non alla riassunzione.