Le forme contrattuali flessibili

Prima di analizzare l’attuale disciplina (Decreto legislativo 368 del 2001), vediamo il testo normativo precedente.
Di fatto il contratto a tempo indeterminato si è affermato, nel tempo, come modello classico e stabile. La legge sull’impiego privato faceva riferimento espressamente al contratto a tempo indeterminato (già citato R.D.L. del ’24). La legge n° 230 del ’62 è la prima legislazione speciale che ha introdotto una specifica disciplina del contratto a termine, ed è rimasta in vigore per 40 anni (fino al 2001).

Il legislatore è spesso intervenuto, però, nel tempo, per flessibilizzare ed agevolare il contratto a tempo determinato. La legge 230/62 era improntata ad una rigida elencazione tassativa dei casi nei quali poteva essere stipulato un contratto a termine (altrimenti la regola era quella dell’indeterminato). Una funzione che oggi potremmo dire “sostitutiva”. Esisteva poi una disciplina specifica per tutte le attività stagionali (secondo una legge dell’83). La modifica più importante rispetto alla disciplina del ’62 risale alla seconda metà degli anni ’80, quando cominciano a manifestarsi pressioni per aumentare i vincoli del contratto a tempo determinato. Il legislatore ha assegnato alla contrattazione collettiva la funzione di introdurre ulteriori diverse causali e ipotesi di contratti a termine.

Il ruolo della contrattazione collettiva è stato notevole ed importante ed è intervenuta anche ponendo dei tetti al ricorso ai contratti a termine (limiti quantitativi). Il timore di fondo delle vicende contrattuali è quello di uno smantellamento della protezione dei lavoratori, attraverso una dose massiccia di contratti a termine. Non vi è mai stata alcuna distinzione espressa e formale per i trattamenti dei lavoratori a termine o non. L’UE è intervenuta in materia di forme precarie di contratti di lavoro. La legge prima del decreto 368 era molto rigida, ma con una forte flessibilità introdotta dai contratti collettivi.

Dalla prima metà degli anni ’80, maturava la convinzione della necessità di un intervento comunitario per armonizzare le discipline delle varie forme di lavoro atipico (≠ tipico, inteso come indeterminato e a tempo pieno. Furono presentate delle serie di progetti di direttive, che non vennero mai attuate a causa delle riluttanze di alcuni Paesi Europei (tipicamente negli anni ’80 la G.B., e negli anni ’90 Germania e Italia). Le varie forme di contratti atipici allora si muovevano diversamente nei vari Paesi. Per tentare di varare finalmente una disciplina comunitaria, si rinunciò ad una mega-direttiva (che non aveva chances di essere approvata all’unanimità): si proposero direttive sui singoli tipi contrattuali, che introducevano una disciplina standard, ma allo stesso tempo minima.

Su queste direttive, dal contenuto minimo, il consenso fu finalmente trovato, e si arrivò nel ’99 all’approvazione della direttiva n° 70 sul contratto a tempo determinato (vedi appendice normativa): “Scopo della presente direttiva è attuare l’accordo quadro sui contratti a tempo determinato, che figura nell’allegato, concluso il 18 marzo 1999 fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale”. È una forma di dialogo sociale a livello europeo; l’origine è particolare, é un accordo tra grandi confederazioni trasferito all’interno della direttiva (tant’è che è articolata per clausole). Citiamo la direttiva 70: “L’obiettivo del presente accordo quadro è:

    1. migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;” difficilmente un’azienda investe su un lavoratore a termine, rischiando di creare un mercato del lavoro di serie B. L’Italia al riguardo, possedeva già delle disposizioni più avanzata.
    2. “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.” (scopo antielusivo).

I contratti a tempo indeterminato restano la regola (eccezionalità del contratto a termine). Citiamo la clausola 4 della direttiva 70 del ’99: “Principio di non discriminazione:

  1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.
  2. Se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis”.

Si pensi a premi di fedeltà e simili: questi tipi di premi non sono riconosciuti nelle stesse misure ai lavoratori a termine o parttime. Per essi, si concedono soltanto “pro rata temporis”, ovvero in base al periodo che hanno operato. Cito clausola 5 “Misure di prevenzione degli abusi:

  1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri […] dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
    1. ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
    2. la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
    3. il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.”.

Perché si arriva al decreto legislativo 368 del 2001? Innanzitutto perché bisognava recepire la direttiva. La domanda che alcuni si sono posti è: era necessaria l’emanazione per l’Italia o si poteva recepirla in automatico? La nostra disciplina antecedente:

  • Prevedeva un sistema di ipotesi causali tassativamente elencate
  • Prevedeva un sistema sanzionatorio degli abusi fin troppo efficiente (severo), che però era già stato alleggerito.
  • NON prevedeva interventi per migliorare la qualità del lavoro

Solo in alcune ipotesi particolari la legge prevedeva la riqualificazione da contratto parttime a indeterminato. La Corte era intervenuta sulla necessità o meno di un intervento del legislatore con la sentenza 41 del 2000. Eravamo di fronte ad una valanga di richieste di quesiti referendari, tra cui uno volto ad abrogare la legge del ’62, ossia l’unica disciplina del contratto a termine.

La Corte si espresse dicendo che fosse necessario mantenere in vita quella legge, per conformarsi alla direttiva, altrimenti si sarebbe reso inadempiente il nostro Paese (vuoto normativo). Nulla è stato modificato per quanto concerne il contratto a termine. Quali sono le differenze tra la vecchia e la nuova disciplina? Quali i punti principali? Se e quando il decreto 368 è coerente con gli obiettivi della direttiva? La prima differenza è che non esiste più un’elenco tassativo: troviamo una clausola generale per il contratto a termine.

Da un punto di vista astratto si allarga la possibilità di stipulare contratti a termine, ma si crea una maggiore incertezza applicativa sulla logica delle ragioni valide. Citiamo l’art. 1: “È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.”. “Sostitutivo” significa che viene assunto per sostituire un altro (es.: maternità).

Il secondo comma ripropone, come in passato, la necessità della forma scritta: “L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma l.”, ovvero: il contratto è da considerarsi indeterminato in mancanza di forma scritta. “Sono specificate le ragioni” significa “devono essere specificate”. Per concludere il discorso sulle causali, facciamo riferimento alla prima pronuncia della Cassazione in merito. Essa ha soltanto indicato una prima interpretazione e non ha regolato la fattispecie, visto che la legge non era ancora entrata in vigore al momento della fattispecie stessa: ha ricordato il carattere comunque eccezionale del contratto a termine, indicandolo come non succedaneo al contratto indeterminato, e ricordando anche che vi deve essere una effettiva giustificazione causale. Il testo del decreto non corrisponde al testo prima della sua approvazione (pubblicato sul Sole 24 Ore), che si apriva così: “il contratto di lavoro può essere a tempo determinato o indeterminato”.

Nessun partito politico avrebbe potuto accettare di rendere fungibile questi due contratti. Guardiamo ora al secondo obiettivo della direttiva: introdurre misure di prevenzione degli abusi. Qui veramente il legislatore sarebbe potuto non intervenire, visto che esisteva già una legge sufficiente in merito. Citiamo l’art. 4 del decreto 368 del 2001: “Disciplina della proroga.

  1. Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.”. Questo avviene solo quando ci sia stata una proroga; non facciamoci ingannare, non c’è una durata massima come chiedeva la direttiva.

Cito art. 5: “Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti.

  1. Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell’articolo 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore.
  2. Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.”: decorsi 30 giorni il contratto si considera a tempo indeterminato. Che efficacia preventiva può avere? Molto limitata: dovremmo immaginare un datore di lavoro poco attento che lascia decorrere tutte le scadenze senza porre alcun termine.
  3. “Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell’articolo 1, entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.” Questo ipotizza il caso più diffuso: la successione di contratti a termine.
  4. “Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.”

L’ipotesi è ancora più eccezionale: l’imprenditore dovrebbe essere ancor più malaccorto. Il decreto è coerente con le misure espresse dalla clausola 5 per la prevenzione degli abusi? Mentre troviamo un limite per la proroga, non troviamo limiti per:

    1. Il rinnovo.
    2. Durata massima
    3. N° di rinnovi

Il Decreto non è quindi coerente con quanto previsto dalla direttiva. Questo potrebbe esporre l’Italia ad eventuali accertamenti fino ad un rinvio alla Corte di Giustizia. Nei confronti di altri Paesi alcune procedure sono già state attuate. Sono, invece, positivi gli artt. 6 e 7. Citiamo l’art. 6: “Art. 6. Principio di non discriminazione.

  1. Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.”.

Ora è specificato chiaramente quali diritti e obblighi spettano ai lavoratori (anche se in passato non c’erano stati problemi con le vecchie leggi). Lavoratore comparabile = lavoratore collocato ad uno stesso livello che svolge stesse mansioni e che si differenzia soltanto per il contratto. Citiamo ora l’art. 7: “Formazione. Il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro.”.

Quest’articolo è giustificato dalle statistiche europee, che dimostrano che i lavoratori precari sono soggetti a maggiori rischi professionali: è più elevata la loro percentuale d’infortuni sul lavoro. Questo comma può essere letto come una specificazione dell’obbligo di sicurezza che grava sul datore nei confronti dei lavoratori a termine. Citiamo anche: “Art. 8. Criteri di computo.

  1. Ai fini di cui all’articolo 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi”. Oggi che l’elencazione tassativa non esiste più, l’unico metodo di selezione è rimasto quello della durata. Ultima osservazione sull’art. 10: “Esclusioni e discipline specifiche.
  2. Sono esclusi dal campo di applicazione del presente decreto legislativo in quanto già disciplinati da specifiche normative: […]”: si trovano una serie di discipline, per settori, dove non sono previste limitazioni quantitative alla contrattazione collettiva.