La particolare fonte atipica del contratto collettivo

Le sue origini risalgono alla fine dell’800.
Nasce sin dall’inizio come un intreccio tra il diritto del lavoro ed i diritti sindacali. La classe sociale privilegiata, da questo nuovo diritto, è quella operaia, e più in generale la figura del lavoratore subordinato (all’inizio i due termini si equivalevano). I fenomeni sociali portarono alla progressiva creazione di un interesse collettivo che cominciava a distinguersi dagli interessi individuali, ossia più lavoratori, vivendo un’eguale posizione lavorativa, individuarono un interesse comune che già da allora non era la semplice somma dei loro interessi, ma era un vero e proprio interesse collettivo. Il quadro giuridico di riferimento era il vecchio codice civile derivante dal codice di Napoleone. In tutte queste disposizioni non esisteva una disciplina giuridica del lavoro subordinato.

Questa situazione si inserì in un vuoto normativo, perché si cercava di utilizzare lo schema della locazione d’opera. Vi erano, soltanto, dei principi generali sui contratti. Si aggregarono coalizioni, gruppi, organizzazioni, secondo diversi principi e con diverse intensità su basi regionali, per contrattare collettivamente le condizioni del lavoro, in un regime liberale di tolleranza (ricordiamo la depenalizzazione dello sciopero del codice Zanardelli). Il primo obiettivo era stato pragmatico: condizioni minime salariali (venivano infatti chiamati “concordati di tariffa”).

Il primo problema che si pose fu l’efficacia dei contratti, che avrebbe dovuto essere “erga omnes” (cioè applicabile a tutti: i primi contratti vengono stipulati a livello di azienda a tutti i dipendenti). Subito, però, si realizzò che fosse meglio ricomprendere intere categorie, anziché intere aziende, poiché il potere contrattuale sarebbe stato superiore. Nacque, quindi, una struttura sindacale che si sarebbe imposta, sino ad oggi, in tutta l’Europa continentale come struttura di riferimento, in cui appare un soggetto definito “Federazione”, che raccoglie le organizzazioni sindacali di una certa categoria (esempio: la prima federazione era metalmeccanica). Si ha la nascita dei CCNL: contratti collettivi nazionali di lavoro (ossia contratti di categoria).

Il secondo problema, forse primo per importanza, è “l’inderogabilità” del contratto. Cosa significa che un contratto collettivo è inderogabile? E perché è necessario che lo sia? Per rispettare questa condizione di inderogabilità è necessario che il contratto collettivo non sia violato ad opera del contratto individuale. Tutte le federazioni confluiscono in confederazioni (CGIL CISL UIL), che sono la struttura di vertice. In parallelo esistono anche le confederazioni dei datori del lavoro (confindustria).

Le confederazioni, storicamente, nascono all’inizio del ‘900, quindi relativamente presto, ed hanno tutt’oggi grande valore politico e sociale. Se guardiamo alle disposizioni preliminari del codice civile, troviamo, tra le fonti del diritto, anche le norme corporative. Sono norme corporative i contratti collettivi, gli accordi economici collettivi, le sentenze della magistratura del lavoro e le ordinanze corporative. Di tutto ciò cosa residua oggi? Solo i contratti collettivi, certo più sviluppati di un tempo. Nei primi dieci anni del ‘900 si vive in una situazione di incertezza dal punto di vista dell’efficacia dei contratti collettivi, che creavano una prima disciplina del lavoro priva di inquadramento politico.

La contrattazione collettiva ha svolto un ruolo rilevante soprattutto per quel che riguarda il lavoro operaio. Già nel 1924 viene definito uno statuto giuridico degli impiegati. Quella disciplina però riguardava solo l’impiego privato. Gli operai erano privi di un diritto del lavoro, per cui erano i contratti stessi a generarlo, sebbene tale fonte non fosse priva di incertezze. Quando cambiò il regime politico cambiarono anche gli atteggiamenti dello Stato nei confronti del fenomeno sindacale: se nel periodo liberale erano tollerati sia il sindacalismo sia l’astensione, sotto il regime fascista si viene affermando un’altra soluzione: la nascita dello Stato interventista e moderno, (cioè che si contrappone al vecchio stato liberale) che si fa carico di alcune questioni sociali. Si interviene con una serie di accordi tramite i quali nasce la confederazione sindacale fascista, in opposizione alla confindustria; esse si riconosceranno reciprocamente come uniche espressioni di rappresentanza.

Il regime si prefiggeva come obiettivo la creazione di una prima disciplina del lavoro operaio. Fu un intervento moderno, seppure con strumenti altamente opinabili, che cercò di generare una regolamentazione del lavoro. Il regime fascista aveva tentato di racchiudere, nella carta del lavoro (1927), dei principi fondamentali, che avranno un valore meramente politico e non entreranno mai a far parte dell’ordinamento, se non nel 1941, durante la guerra, per esser poi eliminati. Bottai (Sua Eccellenza, fondatore di una rivista di diritto del lavoro) è considerato uno dei padri del diritto corporativo (che è la prefazione del diritto del lavoro). Il perfezionamento della costruzione di questo nuovo sistema si realizza con la legge 563 del 1926.

Le corporazioni, disconosciuto il ruolo del Parlamento, furono (o avrebbero dovuto essere) un nuovo tipo di rappresentanza sociale ed economica. Solo nel 1938 nacque una disciplina delle corporazioni, che, di fatto, non fu mai realizzata, vista l’entrata in guerra. Nella legge sindacale del ’26 è specificato che la magistratura del lavoro era composta sia da magistrati sia da esperti (fedeli al regime) nella produzione del lavoro, che avrebbero dovuto giudicare e giungere ad una transazione sulle controversie collettive. In realtà non incise in alcun modo (da non confondersi con i giudici del lavoro).