Giustificazioni dei licenziamenti

Riprendiamo le giustificazioni dei licenziamenti per ragionare un po’ sulla giusta causa. Avevamo visto l’art. 2119, rimasto immutato sino ad oggi.

Con l’entrata in vigore della legge 604 abbiamo incontrato il giustificato motivo, in particolare quello soggettivo. Si pone il problema, dal ’66 ad oggi, di distinguere la giusta causa dal giustificato motivo. Il giustificato motivo soggettivo è un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”.

La giusta causa è un notevole inadempimento, ma più grave, quindi la differenziazione è in termini di gravità e la valutazione diventa di merito. In realtà se guardiamo meglio alla nozione di giusta causa, notiamo che nel 2119 si parla di causa, a differenza della legge del ’24 che tratta la mancanza, ed a differenza dell’inadempimento della legge del ’66: Giusta causa > notevole inadempimento > mancanza. Esistono fatti o comportamenti che non riguardano la prestazione lavorativa, che possono essere persino illegittimi, ma che possono arrivare ad influenzare la valutazione dell’idoneità alla prosecuzione del rapporto di lavoro. La giurisprudenza non guarda alla fiducia in generale, ma specifica che: “il requisito del venire meno della fiducia nel lavoratore è da considerarsi sotto il profilo di un presupposto oggettivo […] tale da menomare la fiducia del datore di lavoro nell’esattezza dei successivi rapporti di lavoro.”.

Quindi non si deve valutare soltanto la gravità del comportamento extralavorativo, ma soprattutto la “legittima attesa”/aspettativa del datore che il rapporto potrà, in futuro, essere svolto correttamente. Un altro problema è la valutazione in concreto del fatto e del danno causato.

La valutazione della gravità dipende dal danno causato? Spesso la giurisprudenza non valuta soltanto il danno causato, ma anche quello potenziale futuro. Atti di violenza, insubordinazione etc. sono stati valutati diversamente dai giudici a seconda dei casi: un inadempimento non gravissimo, ma posto in essere da un soggetto collocato a livello gerarchico elevato (dirigente) è stato spesso giudicato con maggiore severità rispetto ad un comportamento errato da parte di un normale operaio, ad esempio.

La Cassazione parte da un principio di fondo, che è quello che il prestatore è tenuto solo a quanto previsto dal contratto, quindi la sua vita privata non è di regola idonea ad incidere sullo svolgimento del lavoro, tuttavia sostiene che “può costituire giusta causa allorché per la sua gravità e natura […] sia tale da fare ritenere il lavoratore inidoneo, soprattutto quando la mansione richiesta richieda una particolare fiducia.”.

Ad esempio, un dipendente di banca deve godere di un ampio margine di fiducia per maneggiare denaro. Un altro esempio è il caso di un lavoratore della Telecom, che era stato scoperto a coltivare piantine di Hashish e si recava a coltivarle utilizzando l’auto aziendale di servizi, anche durante l’orario di lavoro. Vi era, innanzitutto, l’uso illegittimo di un mezzo di produzione aziendale, nonché la ricaduta sulla prestazione (visto che non lavorava); inoltre era ragionevole ritenere che, anche in futuro, egli avrebbe potuto ripetere un uso inappropriato del mezzo. Riprendiamo ora il discorso sull’“evoluzione della disciplina”.

Premessa

Prima facciamo un’ulteriore precisazione sul campo di applicazione, inteso in senso oggettivo. Oltre alle dimensioni dell’azienda (35 prima, oggi 15 operai), esiste un altro campo: la categoria dei lavoratori.

I dirigenti sono esclusi dalla disciplina dei licenziamenti: restano correlati agli artt. 2118-2119. Perché questo avviene? Perché l’art. 10 della 604 del ‘66 dice: “Le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’articolo 2095 del Codice civile e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.”. Decorsi sei mesi il rapporto acquista stabilità: da quel momento il licenziamento deve essere giustificato. Ricordiamo che i quadri, salvo alcune eccezioni poco rilevanti, sono assimilati agli impiegati e restano, quindi, esclusi solo i dirigenti: per i dirigenti non è richiesta la giusta causa. Il termine “giustificatezza” è utilizzato per fare riferimento alle giustificazioni previste dai contratti collettivi, che spesso non coincidono con la giusta causa o l’inadempimento. Tappe:

  • R.D.L. 1924 (“la mancanza”);
  • 2118, 2119 c.c. del 42;
  • 1966 legge 604 (tutela obbligatoria);
  • 1970 Statuto dei lavoratori art. 18 (poi modificato): non comporta alcuna modifica a quanto abbiamo visto sinora, ma cambia la tutela: essa passa da obbligatoria a reale (quindi cambia il regime sanzionatorio).
  • Legge 108 del 1990: estensione della tutela reale.

Per quanto riguarda il risarcimento del danno, la legge (Statuto) è cambiata. Nel vecchio testo era rilevante anche il momento della sentenza: l’obbligo di reintegrazione scattava dalla sentenza in poi, tra interruzione e sentenza c’era un obbligo di risarcimento. Oggi, dal licenziamento fino al momento dell’effettiva reintegrazione, si ha un unico risarcimento commisurato alle retribuzioni, nonché ai contributi del periodo. Ora rivediamo il campo di applicazione:

  • quello soggettivo non viene modificato: operai, impiegati, quadri (no dirigenti, come già detto);
  • quello oggettivo passa da 35 dipendenti a 15 dipendenti (non si trovava nell’art. 18 ma nel 35 dello Statuto).

Il problema era intersecare le varie leggi (vedi tappe), che restavano tutte in vigore. Ci sono stati due orientamenti:

  • la prima, non irragionevole ma in contrasto con quanto voluto dal legislatore, era: controllare, innanzitutto, se il licenziamento doveva essere o meno giustificato, come da legge 604, poi, per esclusione, passare alle altre leggi (leggere).
  • L’orientamento prevalente è invece: “ogni tutela ha un suo campo di applicazione”.

Una modifica significativa dello Statuto avviene nel 1990 con la legge 108, emanata per evitare un referendum. Proprio la fretta di evitare il referendum indusse il Parlamento ad approvare una disciplina diversa da quella precedente, orientata a realizzare, almeno in parte, il quesito referendario. Essa estende il campo d’applicazione della tutela reale fino a generalizzarla, ovvero la estende a tutti i lavoratori (sempre dirigenti esclusi): è stato abrogato il limite dei 15 dipendenti, per quanto riguarda la giustificazione. Oggi qualsiasi licenziamento deve essere giustificato per iscritto.

Il campo di applicazione dell’art. 18 oggi non si trova più nell’art. 35, ma nell’art. 18 stesso: “il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.”.

L’unità produttiva oggi non rileva più il fatto che il datore di lavoro sia un imprenditore, come nella 604. L’allargamento riguarda anche la sommatoria: in fondo al primo comma dell’attuale art. 18 si dice: “Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.”. Nei casi in cui non si trova la tutela reale (allargata) trova origine la tutela obbligatoria. Cos’altro è stato modificato dalla legge 108? Il contenuto della tutela obbligatoria, e altri due aspetti:

  • Il licenziamento discriminatorio
  • Le organizzazioni di tendenza (per le imprese ideologicamente connotate, senza fine di lucro, non si applica la tutela reale) (vedi anche pag. 15 di questi appunti)

Citiamo l’art. 4 (Area di non applicazione) della legge del 1990 n° 108, 2° comma: “Le disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge, e del l’articolo 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi di legge.”.

Abbiamo citato questo art. per i dubbi di legittimità costituzionale che suscita: potrebbe violare il divieto di discriminazione fondato sull’età, tutelato dal decreto legislativo 216 del 2003, come avevamo già visto. In realtà il problema non si pone, perché il decreto stesso prevede trattamenti differenziati per ragioni d’età. Si mantengono fuori dal campo di applicazione, quindi, i regimi pensionistici.

Altra esclusione soggettiva si trova nel 1° comma: “le disposizioni degli articoli 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla legge 2 aprile 1958, n. 339.”. Riguarda i collaboratori domestici, che non sono tutelati dai sindacati. Soffermiamoci, invece, sul calcolo dei dipendenti. I criteri di computo sono collocati nuovamente nell’art. 18, che ormai è onnicomprensivo, e prevede, oltre alle maniere, anche il momento del computo. Di solito la giurisprudenza guarda al numero di dipendenti, in media, nei 6 mesi antecedenti ai licenziamenti, ma esistono interpretazioni diverse.

Cosa vuol dire che l’unità produttiva deve essere autonoma? Se si prova che un’unità produttiva, che ha meno di 15 dipendenti, non è autonoma, allora quel gruppo di dipendenti devono essere sommati a quelli dell’unità produttiva principale, e, se si superano i limiti, allora quei dipendenti avranno diritti alla tutela reale.

Un altro aspetto riguarda l’onere della prova della dimensione dell’azienda. Perché diciamo che la tutela obbligatoria è la tutela standard? Perché la giurisprudenza l’ha interpretata così: “quando il lavoratore chiede l’applicazione della tutela reale (cioè chiede di essere reintegrato) allora gli spetterà l’onere della prova”. Implicitamente si dice che il requisito numerico è il presupposto di base per poter ottenere la reintegrazione: se nulla viene provato si applicherà la disciplina ordinaria/standard.