Il bilancio

Concludiamo “la liquidazione”. 2 cose distinte sono:

  • estinzione
  • scioglimento o stato di liquidazione: è il periodo necessario per arrivare dalla piena attività all’estinzione (questo periodo può anche durare anni).

La finalità cambia: non si persegue più l’oggetto sociale. Con la vecchia normativa c’era un divieto assoluto di nuove operazioni. Dal 2003 questo divieto è stato superato, purché non si danneggi il patrimonio dell’impresa. Questo implica che essere il liquidatore di una società è diventato più complicato: oggi, da una parte si cerca di non danneggiare la società, dall’altra c’è il rischio che gli affari in corso vadano male. Con la liquidazione venivano nominati al posto degli amministratori dei liquidatori e la competenza era dell’assemblea straordinaria. I liquidatori non fanno altro che monetizzare l’attivo per pagare i creditori sociali. Il problema che ci si poneva con la vecchia normativa era: -cosa succedeva se la liquidazione durava più anni? Inoltre: -bisogna redigere un bilancio? Il problema è stato risolto: con la nuova normativa è stato esplicitato che il bilancio è obbligatorio anche sotto liquidazione, tuttavia i criteri (come vedremo in seguito) di redazione sono diversi. I liquidatori monetizzano l’attivo, pagano i creditori sociali e redigono un bilancio finale di liquidazione.

Il bilancio si conclude con un piano di riparto. A questo punto esso deve essere approvato dai soci. Non è più un diritto dei soci come categoria, ma come singoli, perché è il singolo socio che ha diritto di ricevere la propria quota di liquidazione. Esiste, quindi, un meccanismo di approvazione tacita: passati 90 gg. senza che siano proposti reclami contro il bilancio finale del piano di riparto, il bilancio si intende tacitamente approvato. Spesso, nella prassi, non si vuole attendere i 90 gg. e si fa approvare dall’assemblea il bilancio. È necessario che l’approvazione dell’assemblea avvenga all’unanimità e non con maggioranze ordinarie. Se i liquidatori distribuiscono la quota finale di liquidazione e i soci rilasciano quietanza senza riserve, allora il bilancio si intende tacitamente approvato.

Cos’è una quietanza? Un foglio di carta che conferma il ricevimento di un bene o di un pagamento. La quietanza chiude il rapporto giuridico, se non si aggiunge sul foglio una riserva. Approvato il tutto, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Una volta intervenuta la cancellazione della società nel registro delle imprese, la società finalmente può considerarsi estinta. Scompare dal panorama giuridico.

Cosa succede se c’è qualche creditore ritardatario (per antonomasia è il fisco)? Cioè: la società viene cancellata ma c’è ancora qualcuno che dev’esser pagato. Il creditore ritardatario potrà chiedere il pagamento direttamente ai soci, ma questi risponderanno soltanto nei limiti di quanto ricevuto in sede di liquidazione. Questo principio discende direttamente dall’autonomia patrimoniale perfetta. Rispondono anche i liquidatori se il mancato pagamento del creditore è dipeso da loro colpa. Questo è il sistema dettato dal codice. La società dopo la cancellazione si estingue, ma in un certo senso sopravvive (ai sensi dell’art. 10 della l.fall.) e può comunque essere dichiarato fallito l’imprenditore cessato, entro un anno dalla cessazione.

Cosa è il fallimento? Apriamo una parentesi (non ha valore per l’esame): è una c.d. procedura concorsuale. Il fallimento è la procedura concorsuale per eccellenza e ne esistono altre minori. Quali sono le finalità del fallimento? Nel diritto comune esiste il principio “prior in tempore potior in iure”: il primo che arriva si soddisfa. Questo principio è ritenuto non soddisfacente. Si è allora pensato alla procedura di fallimento, che si basa, invece, sulla “par condicio creditorum”: tutti i creditori devono essere messi sullo stesso piano. Il curatore monetizza l’attivo dell’impresa. Si confronta con il passivo e si applica la c.d. “Moneta fallimentare”: si pagano i creditori sociali in proporzione alla loro quota di passivo. Fine parentesi.

Secondo l’art. 10 l.fall. il fallimento può essere dichiarato soltanto entro un anno dalla cessazione, il che vuole dire che la società è estinta, ma se viene dichiarata fallita entro un anno, tutti i rapporti della società verranno riaperti al fine di pagare tutti i creditori sociali. È vero che la società si estingue, ma c’è quest’anno di vacatio. Passato l’anno non può più essere dichiarata fallita. Questo è l’orientamento attuale della giurisprudenza. L’orientamento in passato era diverso: l’art. 10 l. fall. dice “entro un anno dalla cessazione”, ma la giurisprudenza sosteneva che la società non cessasse fino a che tutte le posizioni attive o passive non risultassero estinte e ciò anche se la società fosse stata nel mentre cancellata dal registro delle imprese. Quindi la società poteva essere dichiarata fallita “sine diem”: senza termine. Quest’orientamento era dato da un “favor” della giurisprudenza per i creditori ritardatari, quali l’INPS ed il fisco. La Corte Costituzionale, pochi anni or sono, ha cambiato quest’orientamento spiegando che la società si estingue con la cancellazione dal registro.

Il bilancio: cenni storici

In questa sede non tratteremo del bilancio in senso tecnico, bensì i principi giuridici fondamentali. Iniziamo da qualche cenno storico: nel 1800 si pensava che il bilancio fosse lo specchio veritiero della totale situazione dell’impresa. Nel 1900 con l’elaborazione dottrinale si è capito che non poteva essere vero, perché il bilancio si basa comunque su delle valutazioni. C’erano quindi più bilanci a seconda delle finalità che si volevano perseguire.

Nacque così la teoria delle c.d. “politiche di bilancio” in cui i redattori, proprio per raggiungere le diverse finalità potevano redigere il bilancio come meglio credevano. Qui si era all’eccesso opposto: l’assemblea era libera di approvare qualsiasi tipo di bilancio. Negli anni successivi è intervenuta la giurisprudenza: “Il bilancio di esercizio è diverso dal bilancio di liquidazione o cessione, però un bilancio di esercizio è uguale ad altro un bilancio di esercizio, allora i criteri devono essere gli stessi, perché la finalità è la stessa”. Si affermò così che fossero nulli i bilanci non veritieri e quindi ledevano il diritto del singolo socio a percepire una quota di utile ovvero (= oppure) una quota di liquidazione. Negli anni ’70, ed arriviamo al regime attuale, si è detto che non è tutelato solo il singolo socio, ma il fatto che il bilancio sia veritiero tutela anche altri soggetti, quali i creditori sociali o i terzi in generale (es: banche). Questo orientamento ha trovato conferma nella 4° e 5° direttiva comunitaria dell’Aprile del ’91, armonizzando la disciplina dei bilanci europei (esistono principi contabili internazionali).

Regole da seguire per redigere il bilancio (dal 1991)

Art. 2423 Redazione del bilancio (immutato; eccetto ultimo comma: lire – euro)

  • Gli amministratori devono redigere il bilancio di esercizio, costituito dallo stato patrimoniale dal conto economico e dalla nota integrativa.
  • Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio. (Prima della riforma del ’91 si diceva che il bilancio doveva essere redatto con chiarezza e precisione; in realtà l’interpretazione non è cambiata: “chiarezza” veniva inteso come “evidenza”, mentre “precisione” veniva visto come sinonimo di “verità”.)
  • Se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta, si devono fornire le informazioni complementari necessarie allo scopo. (Se le informazioni non sono sufficienti, la clausola di interpretazione veritiera e corretta, di cui al comma precedente, prevale sempre!)
  • Se, in casi eccezionali, l’applicazione di una disposizione degli articoli seguenti è incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta, la disposizione non deve essere applicata. (si applicano i 3 seguenti principi:
    • Il principio di chiarezza impone l’univocità e la comprensibilità della denominazione dei nomi dei conti, e si riferisce anche ad una formulazione del bilancio ordinata, facilmente intelleggibile, inequivoca e esauriente, con particolare riferimento alla nota integrativa.
    • Il principio della posta veritiera non toglie che il bilancio sia soggetto a valutazione, ma queste devono essere svolte con la maggiore neutralità ed oggettività possibili.
    • Ultimo principio è la rappresentazione corretta: è stato interpretato sia come sinonimo di verità, sia come “tecnicamente corretta”, ed anche come “buona fede”.)
  • La nota integrativa deve motivare la deroga e deve indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico. Gli eventuali utili derivanti dalla deroga devono essere iscritti in una riserva non distribuibile se non in misura corrispondente al valore recuperato.

Art. 2423 bis Principi di redazione del bilancio (sostanzialmente immutato). Nella redazione del bilancio devono essere osservati i seguenti principi:

  1. la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività;
  2. si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio;
  3. si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento;
  4. si deve tener conto dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo;
  5. gli elementi eterogenei ricompresi nelle singole voci devono essere valutati separatamente;
  6. 6) i criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all’altro.

Deroghe al principio enunciato nel n. 6 del comma precedente sono consentite in casi eccezionali. La nota integrativa deve motivare la deroga e indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico. Con riferimento al bilancio di esercizio approvato ogni anno dall’assemblea, la prospettiva non è quella di una cessione o di una liquidazione della società, ma è quella della continuazione dell’attività, appunto. I costi di impianto (i costi di inizio attività), ad esempio, non si ammortizzano in più anni se si è già a conoscenza del fatto che l’attività durerà un anno soltanto. Eseguiamo l’analisi punto per punto dell’art. 2423 BIS (ricordiamo questi principi da economia aziendale):

1) Il principio di prudenza: principio fondamentale al quale si ispirano i corollari, era contenuto anche nella normativa comunitaria, ed aggiungeva dei corollari per spiegare cosa si intende per “prudenza”, in particolare trattava di

  • iscrivibilità degli utili realizzati,
  • contabilizzazione di tutti i rischi e tutte le perdite d’esercizio,
  • contabilizzazione dei deprezzamenti a prescindere dal risultato di esercizio

Il principio di prudenza è così fatto:

  • si valuta al valore più alto il costo o il rischio;
  • si valuta al valore più basso il ricavo;

È, tuttavia, necessario non travalicare la prudenza per sconfinare nelle riserve occulte: ad esempio, le attività risultano 100, ma in realtà sono 150, perché si sono sopravvalutati i rischi di 50. Più le riserve occulte sono alte, meno sono gli utili da distribuire, a danno dei soci di minoranza e del fisco.)

2) Si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio. Questo è il primo corollario del principio della prudenza (serve a non annacquare il capitale). Un esempio classico per capire questo profilo è il caso delle società partecipate a catena. Si pensi alla società A che partecipa al 100% nella società B. Si supponga che B, nel 2003, abbia un utile di 100. Qual è la procedura per l’approvazione del bilancio? Il bilancio va approvato entro 4 mesi (30 Aprile 2004). Si può dire che A ha anch’essa 100 di utile? Si è ritenuto conforme al principio della prudenza ove, prima dell’approvazione del bilancio di A, vi sia un vincolo giuridico per il quale, senza alcuna condizione, A ha diritto di ricevere quei dividendi, in maniera che sia giuridicamente certo che quell’utile si sia prodotto. È, quindi, richiesto che la delibera del bilancio di B, sia approvata prima della delibera del bilancio di A. Il problema è: si può trasferire l’utile di 100 in A? Il metodo più semplice è quello di farlo “per cassa”: ad Aprile si approva il bilancio di B e si delibera di distribuire tutti i dividendi. Ma come si fa a portare l’utile da B ad A già nel bilancio precedente (2003), quindi  distribuendo gli utili “per competenza”? Due pronunce della Consob hanno affrontato questo tema. Nella prima ha detto “si può fare anche per competenza, ma prima dell’approvazione del bilancio della controllante A, la società controllata B deve aver già approvato, con sua delibera, il bilancio ed ha altresì deliberato la distribuzione di 100 da B ad A”. Si è ulteriormente venuti incontro alla società affermando che non è necessaria una delibera di B, ma basta anche che la proposta di distribuzione sia contenuta nel progetto di bilancio”. Per capirci: il bilancio è approvato dall’assemblea ordinaria, ma materialmente gli amministratori. Essi non redigono il bilancio, bensì un documento che fino a che non è approvato si chiama “progetto di bilancio”. Si può mettere nel progetto di bilancio di A l’utile di B, se, prima della redazione del progetto di bilancio di A, quell’utile è già nel progetto di bilancio di B. In caso di società a catena si può spostare l’utile nella società sopra. Ovvero: utilizzando il metodo di distribuzione di utili per cassa, e non per competenza, se ci fossero 7 società sovrastanti, passerebbero 7 anni, quindi è meglio usare il metodo “per competenza”, ma questo si può fare soltanto purché sia già stato approvato il bilancio della società controllata.

3) Il principio di competenza: Si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data di incasso o di pagamento (amministratori, ratei e risconti eccetera).

4) Ulteriore principio è quello che afferma che “si deve tenere conto di eventuali oneri o perdite di competenza dell’esercizio anche se conosciuti dopo la chiusura dell’esercizio stesso”.

Facciamo un esempio: la vendita è del 2003, ma il ricavo è nel 2004. Secondo il principio di competenza, il ricavo è del 2004, perché la compravendita si è perfezionata nel 2003. Prima di approvare il bilancio del 2003 (entro Aprile 2004), è necessario, se a Marzo veniamo a conoscenza del fatto che il cliente è morto o è scappato in Brasile, tenere conto della perdita.

5) Gli elementi eterogenei ricompresi in singole voci devono essere valutati separatamente. Se una voce di bilancio è composta da varie sottovoci, non si può soltanto indicare il saldo, ma sarà necessario il dettaglio. Il classico esempio è il magazzino: nel magazzino si ha un tot di merce, che probabilmente non è stata comprata tutta lo stesso giorno, quindi si applica la stratificazione dei vari prezzi (LIFO, FIFO eccetera).

6) Ultimo principio: continuità dei criteri di valutazione: non si può modificare il criterio di valutazione da un esercizio all’altro. Ovvero: non si possono cambiare le quote di ammortamento a piacimento. Questo permette la comparazione tra i bilanci, ma non implica che questo principio sia assolutamente inderogabile, ma per effettuare un cambiamento devono sussistere 2 condizioni:

  1. Esiste un motivo oggettivo per giustificare tale cambiamento di valutazione; ad esempio: i titoli sono spesso rappresentati a valore di costo, ma un crollo di mercato può modificare sensibilmente il loro valore.
  2. Deve essere notificato nella nota integrativa.

C’è una discrepanza tra la norma comunitaria e la norma di attuazione italiana. Nella comunitaria si parlava solo del principio di prudenza e tutte quel che veniva dopo erano solo esempi e non casi giuridici autonomi.

Iter procedimentale della redazione del bilancio

All’approvazione del bilancio partecipano tutti gli organi sociali (almeno nel sistema tradizionale). L’iter inizia con la redazione del progetto di bilancio. Gli amministratori (o l’amministratore unico) redigono il progetto di bilancio materialmente. Nel caso del CDA, il progetto di bilancio è, comunque, un atto del consiglio ed è considerato così importante che non può essere oggetto di delega. Questo non significa che tutti i consiglieri devono essere presenti, ma soltanto che il progetto debba essere fatto proprio dal CDA, ovvero è approvato a maggioranza dal CDA stesso.

Entra poi in gioco il collegio sindacale, perché il bilancio, almeno 30 giorni prima dell’approvazione dell’assemblea, deve essere fatto conoscere al collegio, che nei 15 giorni successivi lo verifica, fa una relazione, dopo di che tutta la documentazione, almeno 15 giorni prima, va depositata presso la sede sociale. Perché si deposita almeno 15 giorni prima? Perché così i soci, che poi dovranno approvare il bilancio, potranno prenderne visione. Se c’è un soggetto incaricato del controllo contabile dovrà essere concessa anche a lui una visione e dovrà depositare un proprio giudizio sulla corretta trasposizione dell’attività nel bilancio.  Quando l’assemblea ordinaria approva il bilancio l’iter è chiuso.

Poi esistono il sistema dualistico e monistico. Nel primo, il CDS oltre ad avere i poteri del collegio sindacale, ha anche il potere di nominare gli amministratori e di approvare il bilancio. Cosa vuol dire approvare il bilancio e cosa può fare l’assemblea? Normalmente l’assemblea approva il progetto di bilancio, ovvero trasforma il progetto in bilancio vero e proprio, redigendo un verbale di approvazione del bilancio. Ci si chiede se l’assemblea possa modificare, in sede di delibera, tutto o parte del bilancio stesso. L’ipotesi è molto di scuola, perché tecnicamente è difficile. Tuttavia, giuridicamente, l’assemblea è assolutamente sovrana, per cui se ritiene di cambiarlo lo può fare liberamente.

Una volta approvato, il bilancio deve essere firmato dal presidente del CDA, e depositato entro 30 giorni presso il registro delle imprese. Oggi il bilancio non può più essere depositato in forma cartacea ma informatica. Il problema è quello della firma digitale, che non è altro che una smart card col PIN. Questo ha generato un caos totale, perché tutti l’avevano persa. Allora è uscito un decreto che permette ai commercialisti di depositare, senza responsabilità, i bilanci altrui con la propria smart card. Una volta depositato, il bilancio può essere impugnato. Ma se si impugna il bilancio del 2001 allora diventa scorretto anche quello del 2002 e degli anni successivi, in quanto collegati. Quindi le azioni di annullabilità non possono più essere esercitate dopo che è stato approvato il bilancio dell’esercizio successivo.

Altro punto riguarda il potere di impugnativa. Con la nuova normativa, se il soggetto incaricato della revisione ha fondato un giudizio positivo, allora il bilancio non è più impugnabile né per nullità né per annullabilità, se non da tanti soci che rappresentino almeno il 5% del capitale sociale. Si è così superato il così detto dei “professionisti di assemblea”. C’era un tempo la professione del disturbatore di assemblea (solitamente nullatenente, per evitare di dover pagare eventuali danni): colui che comprava poche azioni delle società quotate, aveva una certa competenza, dopo di che impugnava la delibera. La società, allora, piuttosto che tenere bloccato il bilancio, concedevano somme ingenti in denaro ai disturbatori. C’è anche chi sosteneva che questi disturbatori creavano più controlli, ma erano anche “fastidiosi”. Il 5% indica, quindi, un interesse cospicuo nella società che non fa presumere ad un disturbatore.

L’approvazione della delibera del bilancio e le riserve

Il bilancio si può chiudere con un utile ovvero con una perdita. Per quanto riguarda la perdita, se è inferiore al 3° del capitale sociale si potrà portare a nuovo, altrimenti, se è superiore, si dovrà ridurre il capitale. Nel caso di utile, invece, abbiamo una serie complessa di casi. In linea di principio si può dire che l’utile non è tutto distribuibile, perché ci possono essere delle regole legali, cioè imposte dalla legge o statutarie, che stabiliscono diversamente. Vediamo le più importanti:

  1. Riserva legale: il 5% dell’utile va accantonato a riserva legale sino a raggiungere il 20% del capitale. La riserva legale è un cuscinetto che il legislatore pone a protezione del capitale sociale. Può corrispondere ad una qualsiasi posta d’attivo.
  2. Ci possono poi essere altre riserve imposte dallo statuto: si chiamano riserve statutarie. Queste, tuttavia, hanno una regolamentazione diversa rispetto a quelle legali, infatti possono essere distribuite, modificando lo Statuto (in assemblea straordinaria). Comunque l’assemblea può sempre decidere di fare quel che meglio crede degli utili: accantonarli/distribuirli/50 e 50 etc.
  3. Se si accantonano utili, si crea una riserva disponibile: in ogni momento l’assemblea ordinaria può decidere di distribuirla. Non è detto che se una riserva nasce disponibile resti per sempre tale. Ad esempio, nel caso dell’acquisto delle azioni proprie, queste possono essere acquisite soltanto nei limiti delle riserve indisponibili. Cioè: finché si hanno azioni proprie le riserve sono indisponibili.

Decidendo, al contrario, di distribuire utili o riserve, lo somme distribuite prendono il nome di dividendo. In tal caso, nel momento in cui si delibera il dividendo, nasce il diritto di credito del socio verso la società per percepirlo, mentre non c’è nessun diritto (al contrario delle società di persone) del socio ad appropriarsi degli utili. Cioè: se c’è la distribuzione dei dividendi c’è il diritto di percepirli, se, invece, l’assemblea decide di non distribuire utili, non c’è nessun diritto.